La libertà di (DIS)informazione

Martina

“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.

È bella la libertà di informazione. È bella perché ci rende liberi, perché ci rende partecipi in quanto persone consapevoli e in quanto persone consapevoli ci fa cittadini. È bella la libertà di informazione perché la conoscenza ci apre la strada al libero arbitrio, perché un giornalismo che si pone l’obiettivo di raccontare svolge un servizio che è innanzitutto etico. Qualcuno di molto grande l’avrebbe forse chiamata “Rivoluzione culturale”. Quel coraggio di raccontare quello che molti, troppi, fingono di non vedere , perché il giornalismo ha un senso quando si carica di un dovere morale che non è possibile ignorare.
È bella la libertà di informazione perché se non ci fosse lei, beh, addio anche al dovere morale. L’informazione sarebbe unica, incontrovertibile, una dittatura. Per carità, qui siamo tutti democratici, non scherziamo.
La libertà di informazione. Certo, è stata un po’ meno bella quando l’hanno accostata all’intervista di Bruno Vespa a Salvo Riina. Gli ha fatto male, s’è visto subito, in un colpo solo è invecchiata di dieci anni. Povera libertà di informazione. Perché sì, a quanto pare anche quella si chiama libertà di informazione e nessuno lo sapeva. E noi che si pensava che la libertà di informazione fosse quella per cui sono morti i vari Impastato o Siani, quella per cui si prendono la scorta le Angeli e i Borrometi. Ma che, non abbiamo capito proprio nulla. Per fortuna, all’indomani dell’intervista, sono arrivati loro, i paladini del giornalismo con la G maiuscola a spiegarci come funziona. “Ma scusa e quando Biagi intervistava Liggio?”, “ E le interviste a Saddam?” “E perché Vespa non può intervistare il figlio di Riina?”. C’è la libertà di informazione! All’indomani della tanto chiacchierata intervista lo strascico di commenti è stato esattamente quello previsto (e prevedibile), quello che in fin dei conti ha fatto da parafulmini a Vespa stesso. Riina jr scrive un libro, viene invitato a Porta a Porta per un’intervista, scandalo. Ma lo scandalo, per gli scandalizzati come per i non, non dovrebbe risiedere nell’intervista in quanto tale. L’intervista è un mezzo, un mezzo potente per raccontare una persona, un personaggio con quello che c’è dietro. Il problema etico, morale, giornalistico è che parlare  con il figlio di Riina non è fare informazione se non c’è chi intervista domandando, scavando, facendo venire fuori quanto deve essere detto sulla mafia e non dalla mafia, senza farsi usare. “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene”, diceva Paolo Borsellino. Parlare della mafia, servirsi della mafia a cuor leggero, trattandola come un tema qualsiasi su cui guadagnare qualche punto di share è una leggerezza (o una furberia) imperdonabile. Parlare di mafia lasciando la parola solo al figlio del capo dei capi (peraltro condannato a sua volta per lo stesso reato) così che possa attirare attenzione su di sé, e quindi sul suo libro in uscita, è disinformare. È sfruttare a proprio vantaggio l’interesse morboso della gente per lo scandalo, anche se lo scandalo, come in questo caso, si nutre del sangue dei morti che questo sistema hanno tentato di distruggerlo. Si poteva intervistare Riina jr se l’interesse per la mafia non fosse quello occasionale di chi vuole farne uno strumento di lucro. Si poteva intervistare Riina jr se si fosse parlato con giornalisti che per i loro libri, o per le loro inchieste, sono stati minacciati, aggrediti, da quegli stessi mafiosi di cui Salvo Riina è venuto a farsi portabandiera. Si poteva parlare con Riina jr mettendolo di fronte a chi ha fatto dell’antimafia una scelta di vita, a chi avrebbe avuto da fargli delle domande che questo Paese meritava di ascoltare. Dimenticare cosa sia stata fino ad oggi la mafia per servirsene quando fa al proprio caso non è informare. È il sintomo di quella mancata rivoluzione culturale che di fronte alla mafia fa sì che ci sia ancora chi scrolla le spalle, chi pensa che in fin dei conti, fin quando fa comodo, si può anche chiudere un occhio sulla verità. Ma è la verità che fa bella la libertà di informazione. E la libertà di informazione non conosce patti di comodo e non conosce share. La libertà di informazione è quella che ci vorrebbe cittadini consapevoli e partecipi, non ignoranti consumatori di ignobili scandali.

di Martina Annibaldi

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