Bob Marley. Un ricordo a trentacinque anni dalla scomparsa

 

Simone Cerulli

Trentacinque anni fa se ne andava Bob Marley, al secolo Robert Nesta Marley, scomparso giovanissimo a trentasei anni per un tumore alla pelle. O forse non poi così giovane, considerando che molti dei suoi illustri colleghi, in modi ben più pittoreschi, non sono arrivati neppure ai trenta. Era il 1981, ad ogni modo, ben prima che nascessi. Quei vent’anni in cui ha parlato alle orecchie del mondo, quindi, non li ho vissuti se non di riflesso, motivo per cui non parlerò di quella che è stata la sua vita, la sua carriera. Informazioni che dalla mia bocca uscirebbero inevitabilmente di seconda mano. Conosco però l’effetto che la sua figura di uomo e il suo messaggio di musica, seppur distorto ed edulcorato, ha avuto ancora per quelli della mia generazione, forse l’ultima ad averlo ricevuto. Perché se ancora le sue foto e le sue canzoni circolano ovunque, e forse non c’è qualcuno ancora oggi che non lo conosca, mi sembra sia andato totalmente perso il suo potere di paternità intellettuale, di appartenenza simbolica. Non ricordo di averlo scoperto in un determinato momento, perché lo conoscevamo già tutti. Uno di quei nomi che conosci senza nemmeno saper perché, e che poi quando associ a un’opera concreta dici: “ah, ma quindi questa l’ha fatta lui?”. In quel periodo mi sono avvicinato davvero alla musica, ho cominciato a suonare, ho conosciuto gli amici che ancora oggi mi porto dietro, quelli che maggiormente mi hanno influenzato e viceversa. È stato quello il momento in cui bisognava prendere una posizione nel mondo, entrare a far parte di uno schieramento, scegliersi i propri compagni e i propri totem. Eravamo talmente piccoli che riuscire ad andare oltre a qualcosa che non fosse un mero stereotipo era pura utopia, e ancora oggi non posso dire che si navighi nella piena consapevolezza. Ma cominciavo a capire che la mia identità passava anche per la scelta di questo linguaggio, e a riconoscere chi altro lo parlava. Bob Marley è stato così nelle cuffiette, per me e per noi, quello che Che Guevara è stato sulle magliette rosse col ritratto nero. E in quegli anni sono nati questi capelli lunghi che porto, contro il parere del tempo che passa, ancora oggi. E questo è quello che lui stesso ha sempre voluto essere: non solo musicista, ma figura ispiratrice, leader spirituale, guida dei repressi e dei reietti. E non solo di quelli neri, come viene spesso detto. Il suo messaggio è stato così lungo e potente proprio in virtù della sua universalità intrinseca, inestirpabile da chiunque voglia appropriarsene, da un lato o dall’altro della barricata.

Così come, nondimeno, universale è stata la sua musica. Quando poi negli anni del liceo io e i miei amici ci spostammo tutti definitivamente verso un altro genere musicale, da sempre pervaso da un certo qual purismo epuratore, sono sempre rimasto stupito, come lo sono tutt’oggi, dall’apprezzamento che i miei integerrimi e raffinati colleghi musicisti non hanno mai negato nei suoi confronti.

Di profeti come lui, in giro, qualcuno ancora ne resta. Ma non se ne vedono di nuovi all’orizzonte, e quel messaggio di redenzione e libertà, seppure ancora suona nelle cuffie di qualcuno, non ha ancora trovato applicazione nel mondo concreto.

di Simone Cerulli