Mancato arresto di Provenzano. Nuova assoluzione per Mario Mori

Coordinatrice di Redazione

È stato assolto in secondo grado l’ex generale del Ros, Mario Mori, a giudizio insieme all’ex colonnello Mauro Obinu con l’accusa di aver favorito il boss di Cosa Nostra, Bernardo Provenzano, localizzato ma non arrestato nell’Ottobre del 1995. La sentenza, emessa dalla V sezione della Corte d’appello di Palermo, presieduta da Salvatore Di Vitale ribadisce quanto deciso in primo appello, nel Luglio 2013, dal giudice Mario Fontana per il quale il fatto non costituiva reato.
Il processo era stato avviato nel 2007, in seguito alle dichiarazioni del colonnello dei Carabinieri, Michele Riccio. Secondo quanto ricostruito da Riccio, il boss di Caltanissetta, Luigi Ilardo, suo confidente, gli avrebbe rivelato di un summit organizzato da Bernardo Provenzano, che si sarebbe tenuto il 31 Ottobre 1995. Riccio, avrebbe in quell’occasione avvertito i suoi superiori Mori ed Obinu i quali, invece di intervenire ed arrestare la latitanza del boss corleonese, avrebbero preferito osservare a distanza il summit, lasciandosi sfuggire l’arresto e permettendo a Provenzano di restare libero altri 11 anni.
In virtù di questa ricostruzione, al generale Mori veniva inizialmente imputato anche il reato di favoreggiamento aggravato alla mafia. Capo di imputazione decaduto in quanto, secondo i giudici, basato su una tesi infondata. Il disconoscimento del favore a Cosa Nostra, ha fatto sì che il processo intentato a Mori ed Obinu venisse staccato da quello sulla trattativa Stato-mafia – in corso davanti alla Corte d’assise di Palermo- spingendo il Procuratore generale, Roberto Scarpinato ed il Sostituto procuratore, Luigi Patronaggio a dimezzare la richiesta della pena in fase di appello: 4 anni e mezzo di reclusione richiesti per Mori e tre anni e mezzo per Obinu.
“Mi è stata restituita l’onorabilità come uomo e ufficiale dei Carabinieri”, dichiara l’ex generale del Ros dopo l’assoluzione. Assoluzione che, secondo l’avvocato della difesa, Basilio Milio, porterà inevitabili conseguenze anche nel procedimento relativo alla trattativa Stato-mafia, definito un “processo clone” di quello che ha appena visti assolti i due uomini del Ros.
“Un accanimento giudiziario nei confronti del generale Mori che va avanti da anni”, secondo l’avvocato Milio. Prima del processo relativo alla mancata cattura di Provenzano, Mori aveva dovuto infatti rispondere di un’altra mancata azione: la mancata perquisizione del covo di Riina quando il boss venne arrestato il 15 Gennaio del 1993. In quell’occasione, il generale, opponendosi al volere del procuratore Giancarlo Caselli – favorevole ad una immediata perquisizione de di Riina – e in accordo col Capitano Ultimo (al secolo Sergio De Caprio, guida degli uomini del Ros) decide di rimandare l’azione, riferendo l’intento di incastrare i complici del boss. Con la promessa di mantenere l’area costantemente sorvegliata e filmata, Caselli accetta di rinviare di 48 ore la perquisizione. Quel giorno stesso, solo poche ore dopo la cattura del Capo dei capi, le telecamere sul furgone appostato in Via Bernini 54 si spengono. I fratelli Sansone riescono a portare via dall’abitazione Ninetta Bagarella ed i figli di Riina mentre la Procura rimane all’oscuro. Solo 15 giorni dopo il ritiro degli uomini del Ros dall’appostamento, il procuratore Caselli viene messo al corrente di quanto accaduto. Viene predisposta la perquisizione immediata ma, come prevedibile, la villa di Riina è ormai completamente vuota.
Per questa ragione Mori, insieme a De Caprio, finisce sotto processo con l’accusa, anche in questo caso, di favoreggiamento a Cosa Nostra. La tesi sostenuta sarà quella di un’incomprensione con la Procura di Palermo. Mori e De Caprio giustificheranno il ritiro dall’appostamento con il rischio che gli agenti avrebbero corso rimanendo nel furgone davanti il rifugio del boss. Non riuscendo, tuttavia, concretamente a spiegare il perché prima del ritiro non abbiano effettuato la perquisizione. I giudici, riconosciuto il danno, ma non il dolo, assolvono in via definitiva entrambi gli imputati individuando, tuttavia, nell’abbandono dell’appostamento e nella mancata comunicazione alla procura “un elemento certamente idoneo all’insorgere di una responsabilità disciplinare”. Responsabilità disciplinare scarsamente riconosciuta, considerando che, negli anni a venire, Mori diverrà prima generale, poi comandante del Ros ed infine direttore del Sisde.
Resta aperto il processo sulla Trattativa e resta da vedere se, e come, questa nuova assoluzione di Mori ne influenzerà l’andamento.
Intanto, rimaniamo in attesa della lettura delle motivazioni della sentenza, che verranno depositato entro 90 giorni. Forse capiremo un po’ meglio in che modo “il fatto non costituisce reato”.

di Martina Annibaldi

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