Il cammino del migrante

Patrizia

Hanno camminato a lungo,  senza  sapere cosa li attende dopo ogni singolo passo. Piccoli gruppi che arrivano da terre  diverse e lontane, che fuggono spesso da esplosioni in cui hanno visto morire i proprio cari, che hanno sentito i morsi della fame accompagnarli nelle loro giornate.  Uomini e donne che, a volte, hanno visto trasformare le loro città, le strade in cui una volta passavano sorridenti con i piccoli tra le braccia, in crateri colmi di macerie, che hanno visto entrare nelle loro case persone in divisa arroganti e prepotenti, con cuori e occhi colmi di rabbia e odio.

Nessuna possibilità di salvezza,  se non la fuga, portando con sé poche cose, con il bisogno di spostarsi altrove per sopravvivere, per dare una nuova speranza ai propri figli.

 

Un porto, in Libia o in Egitto, da cui partire verso luoghi che appaiono in pace. L’Europa con le sue nazioni,  con i suoi problemi,  appare  ai loro occhi come un posto in cui ricominciare. La differenza di lingua e di cultura non li preoccupa, dopo aver guardato  negli occhi della morte tutto sembra superabile. Le partenze verso la speranza sono comandate da aguzzini. I mesi trascorsi prima dell’imbarco hanno il sapore del pane e dell’acqua,  delle botte ricevute quando si è alzata la voce, dell’esecuzione sommaria,  della violenza alle donne. E non si può tornare indietro perché non se ne ha la forza, la volontà, i soldi.

 

Salgono sulla barca gli uomini, le donne e i bambini e, in quel momento,  diventano clandestini per una società che non riesce ad organizzarsi di fronte alla povertà estrema di chi ha perso tutto. Non sanno, i nuovi clandestini, che non troveranno molte mani disposte ad aiutarli. Non sanno quanta gente specula, per politica o per soldi, sulle loro vite.  Un giro di soldi che farebbe impallidire Creso ruota intorno alle loro insignificanti vite. Vite disperse spesso tra le onde di un mare che continua a riflettere il cielo e che ai cuori parla ancora di libertà.

 

Per chi non sa nuotare, stipato dentro imbarcazioni fatiscenti,  il tempo non trascorre. Ogni minuto è un frammento di eternità. Negli ultimi naufragi,  ora che il mare sta restituendo i corpi,  pare siano morte settecento persone, molti di loro bambini, la cui ultima visione è stata l’acqua fredda che si innalzava all’interno del barcone, seppellendoli vivi. Poi il mondo si è  capovolto e, in un ultimo dolore soffocante, è finito. Fuori uomini più fortunati gridavano la loro paura aggrappandosi allo scafo.

 

Lontano sulla costa gli aguzzini indifferenti preparavano un altro carico di merce umana. Lontano, sull’altra costa, i telegiornali parlavano dell’ennesimo girotondo con la morte nel Mediterraneo, mostrandone le immagini, come in un film. L’emozione di un minuto sui volti di chi guarda, mentre gente disperata e senza più nulla da perdere, se non la vita, in fila attende di essere imbarcata.

 

Non esiste un modo istantaneo per risolvere tanta sofferenza, ma se non cerchiamo di comprenderla e conoscerla, diventerà sempre più difficile arginarla e questo dolore, ci piaccia o meno,  è quanto la nostra indifferenza umana e politica sta creando.

di Patrizia Vindigni

 

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