Come un cancro che cresce nel silenzio

Pierfrancesco Zinilli

Si potrebbe dire che in Italia c’è un azienda, anzi forse sarebbe meglio dire una holding, che non fallisce mai. Un impresa che, nonostante la crisi, non smette di crescere e che fa affari in tutto il mondo. Il riferimento è all’economia delle organizzazioni criminali. Secondo le stime dell’Istat, rese note nei giorni scorsi, il valore aggiunto proveniente dalle attività illegali nel 2014 è stato di circa 17 miliardi, l’1% del Pil. Un dato in costante aumento negli ultimi anni. L’evidenza in questo senso non è sempre univoca. Bankitalia afferma che, se alle stime Istat si aggiungono anche attività, come l’estorsione, che agiscono in forma organizzata, il fatturato delle organizzazioni possa superare il 10% del Pil. Alcuni studi parlano di circa 150 miliardi. Si tratta di dati necessariamente approssimativi. Innanzitutto, solo una parte di queste cifre sono misurazione certe, per il resto si tratta di stime. Spesso si devono utilizzare metodologie imprecise, seppur ingegnose. Per il calcolo dell’economia sommersa in generale (non solo quella criminale), il metodo più comune è quello chiamato CDA. L’idea di base è che le transazioni nascoste siano effettuate in contanti per evitare la tracciabilità. Si pone, quindi, in relazione l’attività produttiva con la domanda di contante così da valutare eventuali squilibri, che sarebbero da addebitare al sommerso. Tecniche statistiche a parte, i costi derivanti da queste attività sono in ogni caso enormi. Oltre a quelli diretti, ai costi di prevenzione e di reazione per il contrasto e a quelli indiretti (come i minori investimenti consequenziali) vanno aggiunti i costi sociali, potenzialmente incalcolabili. Si pensi, ad esempio, ai danni alla salute dovuti allo sversamento dei rifiuti tossici, fenomeno che non si limita affatto alla Terra dei fuochi, ma è una realtà in tutte le regioni d’Italia, grandi e piccole. Il core business delle mafie rimangono le attività illegali (narcotraffico, prostituzione, contraffazione…), ma limitare a questi il perimetro degli introiti sarebbe un errore. Il confine è labile. La criminalità organizzata si camuffa e si estende all’economia legale. Ha necessità di riciclare gli enormi guadagni e lo fa anche approfittando della stretta creditizia. La stessa Onu ha riconosciuto il grande ruolo delle mafie nel salvataggio di banche durante la crisi. La maggior parte del denaro viene riciclato non più, o non solo, nei paradisi fiscali ma, soprattutto, nelle piazze finanziare di Londra e New York. Unici a disporre di enorme liquidità, le organizzazioni rappresentano per le aziende spesso l’unico modo per evitare il fallimento. È così, checché ne dicano gli ultraliberisti, la concorrenza leale diventa una chimera. Entrando nel mercato, la criminalità ha gioco facile. Senza dover ricorrere a istituti di credito, senza dover preoccuparsi delle norme e del fisco, e spesso facendo ricorso alla violenza, le imprese concorrenti sono schiacciate e messe fuori mercato. Condizionano e si infiltrano nelle istituzioni attraverso una ampia rete di relazioni, anche più che in passato. Infatti, questa è l’altra faccia della medaglia: secondo l’indicatore di Transparency International sulla corruzione, l’Italia è al 61esimo posto al mondo e al penultimo in Europa, dopo la sola Bulgaria. Una gigantesca corruzione che facilita il business delle mafie. Nonostante questo, in Italia si insiste con la cultura dei condoni. E di mafia si parla sempre meno. L’Italia che perde mesi per discutere del referendum sulla riforma costituzionale assomiglia un po’ a quello che, invece di curarsi dal cancro, si preoccupa solo della sua calvizie.

di Pierfrancesco Zinilli