L’ultimo tuffo di Jawara

Lamberto Rinaldi

Ci sono trasferte che si fanno in macchina, altre in treno o in pullman. Altre ancora in aereo, come quando il Gambia disputò il mondiale di calcio femminile in Azerbaigian. Fatim Jawara c’era, giocava in porta, ed era la prima volta che volava.
A Baku andò male per la sua nazionale. Più di 27 gol presi e appena 2 fatti. Ma per Jawara, classe 1997, era stato il mondiale perfetto. Aveva fatto vedere a tutti la sua classe, nonostante il divario tecnico impetuoso. “Non sono in competizione con nessuno – scriveva – solo con me stessa. L’unico obiettivo è diventare più forte di prima”.
Ci sono poi anche altre trasferte. Da fare sul camion, attraverso il deserto, per giorni chiusi in uno spazio ridicolo, senza bere né mangiare. Oppure in gommone, sulle acque del Mediterraneo. E Jawara ha fatto anche queste. A 19 anni, attraverso il Sahara e poi a Misurata dove per giorni ha atteso di trovare un posto su qualche imbarcazione.
Il 27 ottobre ci riesce. Sale sul gommone che, nei suoi piani, l’avrebbe dovuta portare in Europa, a giocare a calcio. Quando lasciano il porto il mare è in ottime condizioni, poi all’improvviso arriva la bufera. Gli oltre cento passeggeri vengono scaraventati in acqua. I corpi, 97, verranno recuperati da una petroliera. Tra loro c’è anche quello di Jawara, come confermato dalla Federazione Calcistica del Gambia: “Siamo in lutto, è una grande perdita per la nazionale e per tutto il paese”.
Ci aveva messo quattro anni per decidere di partire. Da quando aveva parato un rigore alla gara d’esordio, in molti le dicevano che aveva talento. Anche l’intermediario che le ha venduto un posto sul camion in direzione Tripoli. “In Europa si guadagna tantissimo giocando a calcio, devi andarci”.
Così un giorno saluta la famiglia dicendo che stava andando a giocare. Non tornerà più. Li chiamerà solo nel mezzo del Sahara. “Loro hanno provato a convincerla di interrompere il viaggio, ma lei diceva che voleva partire e seguire il suo destino – racconta Sainey Sissoho, una sua compagna di squadra – era determinata, nella vita come nel campo. E sempre silenziosa. Non ha detto niente a nessuno”.
Giocava nei Red Scorpions di Serekunda ed era convinta che le sue prestazioni non fossero passate inosservate dagli osservatori internazionali. “Fatim era come tanti giovani calciatori di qui – spiega Ebou Faye, vicepresidente della Federazione Calcistica – veniva da una famiglia povera come la maggior parte dei gambiani. Ognuno di loro conosce le stelle europee che fanno i milioni giocando a calcio. Questi ragazzi vogliono solo aiutare le loro famiglie. E così ha fatto Jamila. Loro rischiano la back way.”
“Back way”, la via del ritorno. Così in Gambia chiamano la rotta occidentale che dalla costa atlantica attraversa il Senegal, il Mali e finisce in Nord Africa. La parte finale è il viaggio in mare, ed è qui che avvengono l’80% delle morti.
Così tra le oltre 3000 vittime che hanno trovato, da gennaio, la loro tomba nel Mediterraneo, ognuna parla di una storia di speranza, di sogni, di futuro. Di vita. Come Jawara, che sognava di tuffarsi tra i pali di qualche stadio europeo. Il suo ultimo tuffo è stato in mare.

di Lamberto Rinaldi

Print Friendly, PDF & Email