Passo a passo dentro il bambino rimasto in ognuno di noi

Riccardo Tavani

La tecnica del film di animazione detta stop motion assume nel film La mia vita da zucchina una delle sue più convincenti espressioni, sia sul piano delle immagini, sia su quello del racconto. Essa è basata non su disegni bidimensionali ma su pupazzi e oggetti tridimensionali, spesso di plastilina, fotografati a passo uno, ossia passo a passo, a ogni singolo movimento. Il regista Claude Barras e la sceneggiatrice Céline Sciamma sono riusciti a fondere i due piani in unicum narrativo-iconografico raro, sorprendente, capace di entrare in una sintonia profonda ma delicata con la sensibilità immaginativa e le risorse intellettive dei bambini e degli adolescenti.

Il best-seller francese del 2002 Autobigraphie d’une courgette di Gilles Paris, da cui il film è tratto, ha avuto anche un adattamento televisivo di successo nel 2007 con il titolo di C’est mieux la vie quand on est grand. Vi si racconta la storia di Icaro – che si fa chiamare Zucchina – finito a nove anni in un istituto per orfani e bambini abbandonati per aver accidentalmente causato la morte di sua madre, una donna depressa, teledipendente e alcolizzata. Di essa il bambino conserva – come una reliquia sacra e intoccabile dagli altri – proprio una lattina di birra vuota.

L’autore, prima di scrivere il romanzo, ha frequentato per mesi una casa di accoglienza per bambini difficili ed è andato ad ascoltare educatori, giudici, medici, psicologi. Non sappiamo se in un inizio così crudele, quale l’uccisione accidentale della propria madre, Gilles Paris vi si sia imbattuto nel corso della sua ricerca e permanenza nell’istituto, sta di fatto che l’incipit della storia è illuminante al riguardo. Icaro trova una pistola in casa e con questa si mette in testa di uccidere il cielo. La mamma, infatti, gli ripete sempre: “Il cielo, Zucchina mia, é grande per ricordarci che noi, qua sotto, non siamo un granché…Tutti gli uomini hanno la testa tra le nuvole. Dunque, che ci restino. Come quell’imbecille di tuo padre che è partito per fare il giro del mondo con una gallina”.

Il cielo rappresenta quell’elemento che come un destino ci sovrasta, cui non possiamo sfuggire. Tutti nasciamo dentro una situazione geografica, familiare, sociale, ambientale data. “Data” è il termine stesso che indica il giorno del nostro venire al mondo, la data della nostra nascita. Come condizione esistenziale di fondo, dunque, c’è un conflitto tra noi e il cielo, nel processo che porta alla formazione del nostro carattere, della nostra singola personalità. Contrariamente a quello che normalmente si pensa, il Noi dato precede e influenza sempre la formazione dell’Io individuale da darsi.

Nel film la morte della madre avviene in una scena rapida quasi all’inizio e in maniera molto più accidentale, incolpevole da parte del figlio. Rimasto solo, Icaro Zucchina viene accompagnato dal poliziotto Raymond in un orfanotrofio. Qui il ragazzino si ritrova in un mondo che all’inizio gli appare ostile, irreale, incomprensibile. Prima si chiude, si rinserra in se stesso, poi – anche a causa dell’attrazione spontanea che prova verso Camille – vede riflesso in tutti i suoi compagni la sua stessa solitudine, sofferenza, desiderio di essere amato. La sfera del Noi si ricompone come un bozzolo protettivo in grado di dare parole, racconti, pensieri a quel dolore, ossia di dargli un senso condivisibile che lo rende più sopportabile. Se infanzia etimologicamente significa essere ancora senza favella, ossia senza logos, ragione, ecco che lo scambiarsi il dono di quel Noi che è la comune madrelingua ci fa compiere i passi necessari verso la comprensione.

Il regista nelle immagini e la sceneggiatrice nelle situazioni create non hanno bisogno di ricorrere al lugubre repertorio degli stereotipi più crudeli, di squallore su questi tipi di istituti per l’infanzia. No, qui sia la direttrice che il personale fanno del tutto per aiutare i piccoli ospiti, i quali – semmai – provengono da situazioni familiari connotate da fatti crudeli, persino delittuosi, quale l’uccisione della madre da parte del padre. Il dolore come dato dell’esistenza umana ci riporta sempre al bambino rimasto oscurato in noi, ossia a una condizione di infanzia permanente di fronte al mondo sempre troppo spalancato davanti a noi. Come dice il poliziotto Raymond: “Ci sono anche genitori abbandonati dai figli”. Un film da vedere insieme – piccoli e grandi – per sentire l’uno dentro l’altro il suono di quello stop motion, di quel passo a passo fatto di comuni parole, sentimenti, pensieri.

di Riccardo Tavani

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