Palmina Martinelli

 “Giovanni, Enrico; alcol, fiammifero”. La flebile voce di Palmina Martinelli ci giunge da un nastro inciso in una camera d’ospedale come un bisbiglio dall’aldilà. Palmina è stata uccisa, in tutti i modi in cui è possibile uccidere un essere umano: fisicamente, nella memoria, nella dignità. Fasano, 1981: quattordici anni, cresciuta in un contesto di degrado e povertà, sesta di undici figli, costretta a lasciare la scuola in quarta elementare per badare ai fratelli più piccoli, Palmina sognava una vita diversa.

Era innamorata di Giovanni, diciannovenne figlio di amici di famiglia e a cui la sua famiglia l’aveva a sua insaputa venduta, ma che le aveva fatto credere che avrebbero avuto un futuro insieme. Giovanni, assieme al fratellastro Enrico, procacciava ragazzine da avviare alla prostituzione; la stessa sorte era toccata alla sorella di Palmina, Franca, appena quindicenne. Innamoratasi di Enrico, rimasta incinta, era andata, con il benestare della famiglia, a vivere con lui e la madre in una chiesa sconsacrata a Locorotondo, dove ad attenderla c’era un futuro di prostituzione. Marchiata come il bestiame, Franca fu sfruttata dietro minacce di percosse alla figlia appena nata. Palmina capì che quello era il destino che anche a lei era stato riservato, e volle ribellarsi.

Quell’undici novembre era sola in casa; scrisse una lettera d’addio: sarebbe fuggita in Germania con una sua amica. Palmina non poteva immaginare ciò che il destino le aveva riservato. Giovanni ed Enrico vanno a casa, la portano in bagno: alcol e fiammifero. L’immagine che Antonio, fratello maggiore di Palmina, si trova davanti rientrando a casa colpisce come un pugno alla bocca dello stomaco: Palmina coperta dalle fiamme nel piatto doccia del loro bagno nel disperato tentativo di aprire l’acqua, che per una crudele coincidenza in quel momento mancava. La corsa in ospedale, il ricovero presso il centro di rianimazione del policlinico di Bari, ventidue giorni di agonia: Palmina spira il 2 Dicembre, non senza prima aver trovato la forza di denunciare i suoi carnefici. “Ho quindici anni e della vita mi sono stancata; vorrei solo morire in pace tra le braccia di Cristo che mi aspetta”. Chi avrebbe mai potuto credere che quelle fossero le parole di una quattordicenne? Nicola Magrone, pubblico ministero che si occupò del caso, decise di registrare le dichiarazioni di Palmina, “un tronchetto nero di carbone che non si capiva neppure da dove venisse la voce, perché le labbra non si muovevano”, come descrisse in seguito. E grazie alla tenacia e alla caparbietà di Nicola Magrone, che compì una vera e propria rivoluzione, fu possibile ascoltare la voce di Palmina in aula, come principale testimone.

Questo non fu sufficiente ad incriminare i due assassini; un alibi dapprima contestato, e solo in seguito confermato (Giovanni dichiarò di essere a Mestre presso la caserma dove svolgeva il servizio militare, dove un compagno dichiarò in prima istanza di non averlo visto, salvo poi misteriosamente ritrattare), una lettera di “addio per sempre”, convinsero più delle dichiarazioni della vittima stessa: Palmina fu uccisa una seconda volta per “insufficienza di prove”, e poi una terza, in appello, e la quarta, in Cassazione, dove i due imputati furono assolti con formula piena, “per non aver commesso il fatto”. Se il fatto non sussiste, Palmina non è stata uccisa: si è suicidata dandosi fuoco da sola perché depressa, cercando poi di far ricadere la colpa sui due ragazzi. Trentacinque anni di denunce, indagini, battaglie per poter riabilitare la memoria di Palmina,  poi finalmente la svolta: Stefano Chiriatti, legale della famiglia Martinelli, ottiene, il 30 Marzo 2016, la riapertura del caso. Determinanti le due perizie, una ad opera dell’anatomopatologo Vittorio Pesce Delfino, che dimostra come Palmina tentò di ripararsi dalle fiamme coprendosi il viso con le mani, sgretolando così la tesi del suicidio, e una perizia calligrafica, che attesta che la lettera scritta da Palmina fu contraffatta, sfruttando il desiderio di una ragazzina di scappare di casa alla ricerca di un riscatto e di una vita migliore. Per la legge italiana non si può essere processati due volte per uno stesso reato; Enrico e Giovanni, quindi, nonostante tutto, per la legge sono innocenti, colpevoli solo di induzione e sfruttamento della prostituzione (per cui furono condannati a cinque anni). Ma la riapertura del caso è il primo passo verso il doveroso riconoscimento ufficiale di una verità finora rigettata anche di fronte all’evidenza, sussurrata a gran voce già trentacinque anni fa da una ragazzina coraggiosa con il 75% del corpo coperto da ustioni dal letto del reparto di rianimazione dell’ospedale di Bari.

di Leandra Gallinella

Print Friendly, PDF & Email