Popolo Rohingya: pulizia etnica in Birmania

Il nostro mondo occidentale sembra accorgersi solo ora, e con un certo fastidio, della pulizia etnica in corso contro la popolazione Rohingya nello stato birmano di Rakhine .

Eppure la discriminazione subita da questa una minoranza etnica musulmana che da secoli vive in Birmania, l’attuale Myanmar, è storia nota.

Quando, nel 1948, l’ex colonia britannica ottenne l’indipendenza ai Rohingya furono concessi i documenti d’identità, riconosciuti alcuni diritti e riservati seggi in parlamento. Dopo il colpo di stato del 1962, però, persero ogni prerogativa e furono considerati come stranieri.

Solo vent’anni dopo gli fu di nuovo concessa la cittadinanza ma a patto che parlassero una lingua ufficialmente riconosciuta e dimostrassero la presenza della loro famiglia nel paese già nel periodo coloniale. Un nuovo status che non ha messo fine alla repressione e alle violenze. I Rohingya non hanno accesso alle cure mediche e all’istruzione, non possono lasciare i loro insediamenti senza permesso o possedere terreni. Moltissimi di loro vivono in condizioni di estrema povertà.

Nel corso dell’estate, dopo gli attacchi alle stazioni di polizia condotti dall’Esercito Arakan di salvezza dei Rohingya (ARSA), fondato dopo gli scontri tra buddisti e musulmani del 2012 dall’attuale leader Ata Ullah – un Rohingya nato in Pakistan e cresciuto in Arabia Saudita – lo stato birmano ha risposto con massicci rastrellamenti e almeno 214 villaggi sono stati dati alle fiamme mentre più di trecentomila Rohingya hanno cercato rifugio all’estero scontrandosi con le politiche di non accoglienza degli stati confinanti.

Oggi il rischio principale per i militari al potere e per l’ex paladina dei media occidentali, il premio Nobel Aung San Suu Kyi, sembrerebbe essere la radicalizzazione dei musulmani del Rakhine.

Ma è proprio il perdurare delle politiche discriminatorie e violente del governo birmano a dare forza al gruppo armato. Infatti l’ARSA, che non era riuscito ad attrarre il favore di una comunità incline a ritenere la lotta armata controproducente, ha visto aumentare il sostegno tra la popolazione esasperata.

Nel frattempo l’attività dell’Esercito Arakan di salvezza dei Rohingya ha attirato l’attenzione dei gruppi islamisti radicali, pronti a sfruttare la situazione, anche se Ata Ullah sostiene che quella combattuta dall’ARSA è una lotta di liberazione e nega ogni legame con le organizzazioni terroristiche internazionali.

Le politiche dello stato birmano, fatte di discriminazioni ed espulsioni, oltre che rappresentare un crimine non sembrano certo le più adatte a spegnere i sentimenti di riscatto e a contenere il sostegno della minoranza rohingya alla lotta armata. E’ fondato il sospetto che si voglia approfittare della situazione per portare a compimento la pulizia in corso.

Quantomeno ambigua anche l’indifferenza delle potenze mondiali che, mentre predicano la lotta al terrorismo islamista, contribuiscono a fornirgli una formidabile arma di propaganda.

di Enrico Ceci

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