E’ una società normale quella che uccide un cane e posta il video sui social?

“La crudeltà verso gli animali insegna la crudeltà verso gli uomini”. La paternità di questa citazione è da ricondurre al poeta romano Ovidio e oggi sembra risuonare più attuale che mai: sono in continuo aumento i casi di persone che esercitano violenza su animali indifesi. Eventi come questi nascondono un chiaro segnale socio-antropologico che non andrebbe ignorato.

La deliberata violenza su un animale scaturisce spesso da disturbi che possono avere diverse origini: distorsioni della condotta, difficoltà sociali o narcisismo e paranoie. Spesso l’ambiente principale in cui hanno origine e si alimentano queste deviazioni è proprio la famiglia: il nucleo familiare ha un’influenza enorme sulla formazione di un individuo, anche al di là di una componente innata presente in ogni personalità. Genitori, fratelli e sorelle sono in grado di educare o meno al rispetto degli animali, determinano lo sviluppo di altruismo ed empatia nei confronti del resto del mondo. La mancanza di cure adeguate e di affetto, soprattutto nella prima infanzia, può condurre al mancato sviluppo di una parte del lobo frontale, quella che appunto ci permette di comprendere le nostre sensazioni, modulare la rabbia e le frustrazioni. Chi commette violenza sugli animali è nella maggior parte dei casi affetto da alessitimia, la totale incapacità di dare un nome alle emozioni.

Studi specifici rivelano un quadro inquietante: il 16,7% delle persone tra i 9 e i 18 anni ha compiuto un atto di violenza su un animale almeno una volta nella vita. Di questi, 1/5 ha ammesso di averlo fatto per puro divertimento e il 31% è minorenne: 1/3 di questi soggetti da adulto può rappresentare un serio pericolo. Sono gli uomini, con una percentuale che arriva al 94%, a essere i principali autori di questa vergogna: il 4% non arriva nemmeno a 12 anni. In questo panorama l’aspetto forse più tragico è che nel 21% dei casi i la molla scatenante sono violenze simili a cui si è assistito in passato all’interno delle proprie mura domestiche.

Ci sono tre modi in cui il futuro killer approccia a questo tipo di soprusi: spesso assiste a forme di violenza gratuita, altre volte sin da bambino ha avuto modo di vedere un adulto che percuote, se non addirittura uccide, un qualsiasi animale. Infine, in alcuni casi è stato costretto, al solo scopo di essere punito, ad assistere ad atti di violenza sull’animale a cui era più affezionato. In questo modo maltrattare piuttosto che uccidere non viene percepito come qualcosa di sbagliato. Soggetti in grado di compiere simili gesti vengono definiti “insensibili-non emotivi”: uno studio americano ha rivelato che il 50% delle persone che uccidono ha un passato di “pet cruelty”. Le persone che iniziano a fare del male al prossimo, partendo dagli animali, hanno 11 volte la possibilità di rendersi autori di violenze intrafamiliari.

La morte oggi non fa più notizia, ma almeno tra gli uomini, in alcuni rari casi, addirittura indigna. Quando invece coinvolge gli animali il fastidio e il ribrezzo sono più contenuti perché si ha come l’idea che la vita di un cane non valga come quella di un uomo. Studi recenti e non dimostrano che, soprattutto tra i più giovani, queste violenze sono originate da un disagio specifico: l’ennesimo nella nostra società ormai malata.

di Irene Tinero

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