Ricordiamo Valle Giulia. Era il 1968

“Verificare i nomi (Confucio), cioè ciò che è una certa cosa non è una certa altra: l’etica non coincide con la politica, la politica non coincide con la religione, la religione non coincide con l’arte, l’arte non coincide con il sapere politico, ecc.”
Franco Fortini

Eccoci ancora a tentare di dare un quadro delle idee che circolavano in quei tempi di contestazione al sistema. Un altro elemento che caratterizzò quel periodo fu quello delle cosiddette “canzoni di protesta”. Già negli anni precedenti il ’68 vi erano state espressioni in tal senso. Le canzoni dei “Cantacronache”, “I morti di Reggio Emilia” di Fausto Amodei, che ancora viene cantata nelle manifestazioni della sinistra antagonista e, la più famosa, anche se fu’ scritta, a detta dell’autore, ancor prima di quel fatidico anno, e per precisione all’indomani dell’uccisione dello studente Paolo Rossi ad opera dei gruppi fascisti che spadroneggiavano all’Università, “Contessa”, che, al di là della disinvoltura sintattica delle parole del ritornello “Compagni dai campi e dalle officine”, che ricalcava quello di alcuni dei vecchi canti (allora, con qualche prosopopea, chiamati “inni”) anarchici e socialisti dell’800, venne subito presa ad emblema della lotta che si andava sviluppando in quei tempi e in quei luoghi. Ricordo di averla sentita cantare la prima volta da alcuni studenti nei corridoi della Facoltà di Lettere della Sapienza e mi fece subito l’impressione di un qualcosa di nuovo, tanto che fui spinto a modificare io stesso il mio modo di esprimermi in forma poetica. Passai così da testi allusivi a una rivoluzione immaginata attraverso le gesta di re, cavalieri e contadini dei secoli passati ad una più concreta descrizione del presente, o di quello che io ritenevo essere la situazione politica che, si pensava, andasse rovesciata.
Così fu questa la mia prima canzone di “protesta”, anche se giocata in veste ironica e canzonatoria, forma che in generale non mi sarebbe appartenuta nelle successive canzoni, più taglienti e più aderenti alla realtà. Anche l’accompagnamento in 3/4 dava alla canzone quell’andamento da valzerino che, ritenevo, sarebbe rimasto più facilmente impresso nell’orecchio di un pubblico popolare e meno avvezzo a ritmi più complicati:

CAMICIE NERE

Senza qualcosa che veste
cosa sareste cosa sareste.
Qualcosa che vi distingua
dalla battaglia
dalla soldataglia.
Qualcosa che sia uniforme
entro le norme
del conformismo.
Se non ci fosse il fascismo
chi vi darebbe tanta allegria.
Se non ci fosse la CIA
chi ci darebbe tanto fascismo.
Se non ci fosse il colera
le bustarelle del petroliere.
Senza le vostre galere
come stareste
ancora al potere
Camicie nere.

Senza qualcuno in famiglia
che vi lusinga che vi consiglia.
Senza un’infanzia felice
con l’aeroplanino
e la mitragliatrice.
Senza qualcuno alla porta
che quando uscite
vi fa da scorta.
Senza gli amici potenti
che fan da scudo ai vostri lamenti.
Senza lo sporco candore
di chi vi crede
il male minore.
Senza la vostra questura
che vi ripaga
di ogni paura.
Senza le “azioni severe”
come stareste
ancora al potere
Camicie nere.

La cantammo, io e i miei compagni, con cui avevo formato un improvvisato (e poco preparato musicalmente e vocalmente, devo dire per onestà) collettivo musicale che si ispirava all’espressività popolare, durante alcune assemblee del movimento ed in special modo durante l’occupazione delle case che allora costituiva, svolgendosi per lo più nelle borgate di periferia, un terreno fertile per far passare messaggi che ritenevamo, noi appartenenti alle classi più agiate, andassero nella direzione di quel “servire il popolo” , “di andare incontro alle masse”che era, pur con qualche ingenuità, uno degli obiettivi che si dava il movimento in quegli anni.

(continua)

di Maurizio Chiararia