Alì il nemico perfetto dopo Kim

Al momento di andare in pagina non sono ancora emersi chiaramente tutti i termini – ufficiali e riservati, formali e informali – dell’accordo tra gli Usa e la Corea del Nord, tra i loro due presidenti Donald Trump e Kim Jon-un. I giudizi dei maggiori osservatori e analisti internazionali non potrebbero essere più disparati e contrastanti. Di certo si può affermare soltanto che un processo si è avviato ma che il percorso è ancora lungo e accidentato di ostacoli e rischi oggettivi. Le sanzioni contro Corea del Nord rimangono in atto, i trentamila soldati americani stanziati in quella del Sud non smobilitano. Sono sospese al momento solo le esercitazioni congiunte con gli Usa che avrebbero dovuto già svolgersi un paio di mesi fa.

Va ricordato che quello nucleare è solo un aspetto del problema, avendo la Corea del Nord trentamila cannoni convenzionali a lunga gittata puntati contro quella del Sud, e questo costituisce di per sé già un punto strategico di forza a favore di Kim. Ossia: anche smobilitando il nucleare il suo deterrente offensivo di teatro regionale rimane intatto. C’è un altro aspetto da considerare. La Cina in tutto questo grande show diplomatico non è apparsa minimamente. Questo ha permesso a Kim di apparire come leader di una potenza politico-militare autonoma che tratta direttamente con una potenza che è a tuttora la più grande del mondo. C’è da dubitare, però, che la Cina non voglia essere dettagliatamente, minuziosamente informata, per poter vergare – passo per passo – il proprio strategico consenso di fatto. Anzi, dovremmo aggiungere che questo rientra anche nell’interesse prioritario di Usa, Sud Corea e Giappone. I risultati dell’analisi sulla vera portata di quanto è successo in questi giorni in quella stanza dell’Hotel Capella di Singapore non potranno dunque che essere a lento rilascio.

Una cosa però appare certa. The Donald quei risultati già li aveva ampiamente in tasca al momento di decollare da Charlevoix con l’Air One e di bombardare con quel suo clamoroso tweet il quartier generale del G7 ancora riunito in Canada. Ricordiamo che Trump se l’è filata via subito dopo aver chiesto che il vertice tornasse a inglobare anche la Russia e prima che si affrontassero i temi dei mutamenti ambientali, ribadendo così la linea americana già manifestata al vertice Cop 21 di Parigi del 2015. Che poi un accordo ufficialmente firmato appena poche ore prima, con tanto di formali protocolli internazionali – possa essere annullato in volo digitando un tweet e con un semplice click di invio, già questo suona come il peggior dileggio che si potesse fare a quell’assise di potenze esclusivamente europee (a parte il Canada).

Un avvio di soluzione con la Corea del Nord non può che avvenire nella cornice di un più ampio accordo con la Cina nel lungo periodo, di carattere sia politico, sia economico. Gli interessi convergenti tra Trump e Putin erano già emersi al tempo dell’ultima campagna elettorale americana e sono tutt’ora oggetto di inchieste giudiziarie e possibili richieste di Impeachment contro The Donald. Nel suo spicciativo progetto dei grandi lavori di sbancamento per risistemare la faccia del pianeta all’attuale presidente americano rimarrebbe così da sistemare solo la questione europea. L’Europa, ossia quel colosso economico di 500 milioni di abitanti in grado – se la smettesse di essere anche un nano politico – davvero di vanificare la prosopopea trumpiana dell’America First. Questo slogan, infatti, contiene già in sé la condizione che gli Usa siano davvero l’unica, la sola potenza egemone dell’Occidente. Può permettersi di fronteggiare la potenza economica cinese sulla sponda del Pacifico, solo se sul versante atlantico riesce a disinnescare quella europea. Di qui il suo interesse ad agire attivamente – sia sul piano tattico, sia su quello strategico – su tutte quelle divisioni che l’Europa, purtroppo, continuamente apre in sé stessa e gli mette continuamente su un piatto d’argento. Lo abbiamo visto quando si è speso a favore della Brexit, e ora accogliendo a braccia aperte l’ulteriore frattura oggettivamente rappresentata dal nuovo governo italiano con il suo rombare di vecchie ruspe, insieme a quelle della vecchia Mitteleuropa.

Smembrata di nuovo l’Europa, ci sarebbe poi solo un ultimo grande tassello strategico da sistemare. L’America può tornare ad essere davvero Prima, First solo in una situazione che riconfiguri una qualche grande minaccia mondiale che solo essa è in grado di contenere, in un nuovo quadro di alleanze militari internazionali a essa assoggettate. Proprio come era ai tempi del bipolarismo, della diarchia con l’ex Urss, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. A chi si può oggi intestare– più o meno credibilmente – una tale minaccia se non alla Repubblica Islamica dell’Iran? È questa un’entità dittatoriale economicamente, militarmente, politicamente, ideologicamente ricca e potente. Essa è così in grado di fare propria la spinta dei paesi più poveri e più sfruttati del mondo, per eleggersene – direttamente o indirettamente – rappresentante nel poligono di forze, influenze ed egemonie su scala mondiale. Di qui la rottura plateale degli accordi con Teheran, raggiunti dopo anni di difficili trattative dall’ex presidente americano Obama e dall’Europa. Una rottura ulteriore, dunque, soprattutto contro l’Unione Europea.

L’Iran può essere oggi elevato a nemico perfetto. Quello che se non esistesse bisognerebbe inventarlo. Quello che ha l’arsenale atomico in pancia senza averlo ancora partorito. Quello in cui addensare e confondere tutta la nube indistinta di califfati, sangiaccati, sultanati, sceiccati, di anonimi Alì, Abdul, Ibrahim e altri lupi solitari, ciecamente ostili all’Occidente, nascosti e armati contro di esso con coltellacci, mitra e camion, fin dentro le viscere storiche delle sue città, della sua cultura, delle sue comunità. Altro che accordarsi! Contro di esso deve esserci e sempre ci sarà e soltanto lo scudo di Capitan America a proteggere il mondo contro la sua criminale follia. Le salmerie europee seguiranno.

di Riccardo Tavani

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