Il populismo contemporaneo

Che cos’è’ il populismo? È difficile rispondere, pochi termini hanno un significato più ambivalente. Se cerchiamo nella storia, il populismo ha rappresentato idee politiche molto diverse, che vanno dal bonapartismo a movimenti per la liberazione dei contadini nella Russia dell’Ottocento, dal people’s party americano al peronismo argentino nel Novecento, passando per l’anarchismo di Bakunin. Ma quelli erano nuovi – pur se discutibili – pensieri politici, mentre ora il populismo sembra soltanto un deterioramento della prassi politica, sostenuta dall’impoverimento del pensiero. Si parla di un populismo di destra e di un populismo di sinistra, tanto per non farci mancare niente in fatto di confusione mentale: ma il populismo tende dichiaratamente a sparigliare questa tradizionale suddivisione ed è, per definizione, trasversale.

Che cos’è, allora, il populismo contemporaneo? Cerchiamo di individuarne le caratteristiche più specifiche.

La sua prima caratteristica è la pretesa di interpretare la volontà popolare: il populista dice sempre di parlare in nome del popolo. È ovvio che nessun esponente politico possa essere considerato l’interprete della volontà popolare, perché la stessa volontà popolare difficilmente – per non dire mai – è univoca. Il popolo ha sempre una molteplicità di voci. È per questo che esistono i sistemi di rappresentanza politica; è per questo che si cerca, in qualunque democrazia, di rispettare il pluralismo delle voci e delle opinioni, attraverso meccanismi ormai collaudati che si chiamano parlamento, partiti, sindacati, dialogo, costituzione. Ogni politico dovrebbe avere l’umiltà di voler rappresentare soltanto una parte, ancorché maggioritaria; ma poi, nel nostro caso, nessuno dei partiti più o meno populisti si avvicina ad essere maggioranza. Quelli che si ritengono vincitori delle elezioni sono soltanto meno minoranza di altri. D’altronde, gli unici politici che pretendono di incarnare il popolo per intero ed in modo assoluto – e non una sua parte ed in modo relativo – sono i dittatori. Poiché ritengono di interpretare la volontà del popolo, ritengono anche che si possa e si debba fare a meno di pluralismo, dialogo, partiti e rappresentanze varie.

Un’altra tipica caratteristica del populismo è rappresentata dalle modalità di comunicazione. Il populista occupa la scena mediatica in modo pervasivo. Ha bisogno che si parli di lui. È, come i divi del passato, un “mattatore”. Mao Zedong, ottantenne, attraversava a nuoto il fiume Giallo: nessuno, almeno da noi, ci credeva, ma tutti i giornali (non solo cinesi) avevano la notizia in prima pagina. Anche Grillo, nel suo piccolo, ha attraversato a nuoto lo stretto di Messina: l’importante è conquistare la ribalta mediatica, anche se il gesto ha più a che vedere con lo sport che con la politica. Salvini ci bombarda di tweet,ogni pochi minuti ne sforna uno, anche a urne aperte, violando la regola del silenzio elettorale durante le operazioni di voto: l’importante è parlare, non rispettare le regole.

La comunicazione populista si riconosce non solo per la quantità, ma anche per la qualità. Deve impressionare e suggestionare, non convincere. Non parla alla ragione, ma all’inconscio. Lavora sugli slogan e non sui concetti.

E, purtroppo, funziona.

Ha funzionato benissimo con Mussolini, che godeva di un larghissimo appoggio popolare, mentre l’antifascismo era minoranza. Dal “boia chi molla” del ventennio all’“io non mollo” di Salvini, funziona sempre. Non si deve mai spiegare, ma affermare, possibilmente gridando. Magari mentire senza vergogna, se serve mentire. Ecco, per esempio, come “smontare” il problema imbarazzante delle torture e dei maltrattamenti dei profughi in Libia: “Ho chiesto di visitare un centro di accoglienza per migranti in costruzione, un centro all’avanguardia che potrà ospitare mille persone. Questo per smontare la retorica in base alla quale in Libia si tortura e non si rispettano i diritti umani” (parole di Salvini durante il viaggio in Libia, riportate da Repubblica). In sostanza: il centro all’avanguardia non c’è (è in costruzione); quindi che cosa ha visitato o ha “chiesto di visitare”?  E, ovviamente, il problema non sono le torture e i maltrattamenti (difficile verificare se ci siano o no, in un centro in costruzione), ma la retorica: con buona pace del buon senso.

La Lega ci fornisce  molti esempi tipici di comunicazione populista. Uno dei suoi slogan era “Roma ladrona”; mostrando un cappio in una famosa seduta del Parlamento, la Lega pretendeva di desiderare punizioni esemplari per i disonesti. Ma proprio il suo fondatore e storico leader Bossi è stato condannato più volte come “ladrone”: nel ‘94 per finanziamento illecito al partito (reo confesso nel “caso montedison”); nel 2017 per truffa allo stato (56 milioni) e, ancora, per appropriazione indebita dei soldi del partito. È interessante notare che la Lega non ha mai restituito il maltolto, né si è costituita parte civile contro Bossi; al contrario, ha recentemente costituito uno strano sistema di società estere (si veda l’inchiesta de L’Espresso). Non sono illegali, ma di solito servono a nascondere il denaro; e perché un partito politico dovrebbe farlo? Che cosa vuol nascondere ai suoi elettori?

Nella comunicazione populista la verità è un optional, il voltafaccia quasi obbligatorio. Così sempre la Lega, subito dopo aver detto “coi fascisti mai”, chiarendo che per fascisti si intendesse il partito di Fini, ci ha governato insieme. Pochi mesi dopo cambiava nuovamente idea, mettendo definitivamente in crisi il governo.

Con analoga nonchalance, i 5stelle si sono alleati con i “ladroni” leghisti, buttando alle ortiche la parola d’ordine “onestà”. Stanno al governo con la Bongiorno, che vuole prendere le impronte digitali agli statali, ma difende, come avvocato, il “re” delle slot machines, vecchio sodale del boss Santapaola ora accusato di riciclaggio: comunque, uno che lucra sulla truffa legalizzata del gioco d’azzardo e sulla rovina di tanti cittadini indotti alla ludopatia. Da che parte starà la ministra della pubblica amministrazione? E Di Maio?

L’incoerenza è un’altra caratteristica qualificante del populismo. Per esempio, i 5stelle hanno smesso di restituire una quota dell’indennità parlamentare allo Stato, impegnandosi ora a  darne una parte a un privato, la Casaleggio Associati, che si presenta come un’azienda che “offre servizi di consulenza strategica per la presenza in Rete”. Dal finanziamento pubblico dei partiti si è passati alla tassa aziendale: ma sempre con soldi dei contribuenti, versati ai grillini come indennità parlamentare.

Nel frattempo, il reddito di cittadinanza (considerato da alcuni economisti, assolutamente non grillini, come prospettiva inevitabile in una società che offre sempre meno posti di lavoro a causa di automazione ed informatizzazione) si trasforma in semplice sussidio di disoccupazione e, infine, in avaro compenso di stato per 8 ore di lavoro quotidiano (per far cosa? con i contributi o in nero? Non si capisce). Comunque, sia chiaro, non per quest’anno; forse il prossimo, se ci saranno le coperture.

In conclusione, il populismo di oggi non è un’idea politica, ma una prassi che, certamente, non è nata adesso improvvisamente, ma si è sviluppata in anni di malcostume politico, di cui pochissimi (voglio essere ottimista) sono esenti da responsabilità. Ed oggi è cresciuta a livelli preoccupanti, riducendo vistosamente non soltanto i partiti più tradizionali, ma anche gli spazi della democrazia. Chi non è d’accordo viene aggredito verbalmente e talvolta minacciato, come emblematicamente è successo a Saviano. E che questo populismo nasconda una voglia inconfessata di totalitarismo, lo si vede anche  dalle sue dichiarate simpatie: Le Pen, Putin, il gruppo di Visegrad, tutti paladini della democrazia. Altrettanto imbarazzanti sono le sue “non scelte” di campo: è ambiguo il rapporto con l’Europa, è equivoco l’atteggiamento verso l’euro, è contraddittorio lo schieramento rispetto all’alleanza atlantica. Tutto si può discutere, ma la chiarezza è dovuta.

Qualcosa si gioca sull’equivoco, qualcosa sull’insulto. Con risultati veramente incoraggianti: oggi l’Italia è economicamente più debole (“spread” più che raddoppiato, che da solo ci costerà più di 13 miliardi in tre anni) e politicamente più isolata; mentre l’Europa è più fragile. Un’Italia (fondatrice dell’Unione Europea, sua importante contributrice, pezzo importante dell’apparato industriale europeo, imprescindibile per l’arte e la cultura del continente) che si mette di traverso all’Europa è un fatto di importanza assoluta. A voler essere un po’ “complottisti”, c’è da temere che ci sia lo zampino di qualche “amico” che vuole scongiurare il pericolo di un’Europa forte e coesa; uno che non ha esitato ad aggredire militarmente l’Ucraina e ad annettersi la Crimea, quando si è parlato di un suo ingresso nella comunità europea; che ha contribuito alla campagna pro Brexit attraverso i social media. Ma io non sono complottista: è certamente un caso che i nostri populisti siano tanto amici di Putin, i cui interessi economico-politici passano per un’Europa debole e divisa.

di Cesare Pirozzi

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