Demagogia e verità, sulle aperture domenicali nel commercio

Quando il vicepremier Di Maio ha annunciato di voler “chiudere i negozi”, nei giorni festivi, si è scatenato un putiferio: “Così si perderanno migliaia di posti di lavoro!” hanno gridato gli uni; “Non si può stare in famiglia solo per fare la spesa!” hanno risposto altri; “Così si danneggia l’economia in ripresa!” hanno tuonato i primi; “Non si tratta di un servizio essenziale!” hanno risposto i secondi. Il tutto condito da affermazioni e cifre a suffragare la propria tesi, più o meno validamente. Le associazioni datoriali di categoria, poi hanno subito tuonato al ritorno ad un medioevo commerciale, al quale si fatica a credere.
La prima certezza tra tante affermazioni sono che le domeniche (ed i festivi) di apertura nel commercio, rappresentano un costo aggiuntivo per le aziende poiché solo di luce-acqua-pulizie-logistica-retribuzioni, rappresentano in ogni caso un aggravio sul bilancio dei negozi. L’altra certezza è che, statistiche alla mano, questo giorno di apertura in più, non ha portato a dei rilevanti incrementi negli acquisti: di pari passo al crescere del fatturato dei giorni festivi, è corrisposta una diminuzione di quello degli infrasettimanali. Questo perché in un periodo di scarsa la liquidità, di diffusa povertà, la facilità e la comodità a fare spese, non possono rappresentare dei fattori scatenanti all’aumento dei consumi. A ben vedere, è pure probabile che ne abbia risentito l’industria del tempo libero, poiché il cambiamento di abitudini sugli acquisti, ha tolto tempo e risorse allo svago: chi dopo aver fatto shopping, ha ancora voglia di andare al cinema, in un museo, a teatro, a fare una gita?
La liberalizzazione voluta da Monti ha mostrato dei limiti inaspettati: non ha incrementato né le vendite, né l’occupazione e non ha portato né ricchezza né liquidità al mercato. Il perché è ovvio: l’aver dato la possibilità di aperture senza limiti, senza regole, senza obblighi, ha spinto i padroni a scaricare sui lavoratori quanto più possibile i costi aggiuntivi. In più, senza apportare nuove assunzioni, o maggiori retribuzioni, i datori di lavoro non hanno ampliato la platea dei consumatori, apportando linfa all’asfittica economia italiana.
Allora, se comunque “non conviene”, perché quest’accanimento a voler a tutti i costi a rimanere aperti? Probabilmente, in attesa che riprendano i consumi (allora sì che un giorno in più di apertura sarebbe rilevante), i datori di lavoro vogliono dei rinnovi contrattuali forti di un dato di fatto, che consentano loro di ribassare le retribuzioni festive (o non-alzarle, che poi è lo stesso), a fronte delle nuove numerose aperture di negozi, che hanno messo in crisi diverse catene di distribuzione. Ma se ciò giova loro, di certo non farà bene al paese, poiché l’impoverimento dei lavoratori arretra l’intera economia. Visto che costituisce un aggravio di spese, il principale motivo che obblighi un negozio all’apertura festiva (grazie alle liberalizzazioni), è che nel commercio nessuno si può permettere di stare chiuso, quando il suo concorrente sia aperto.
Le conseguenze sono stati dei ricatti sui posti di lavoro per il cambiamento dei termini contrattuali, aggirando i corrispettivi (pieni) da pagare: i lavoratori del commercio hanno visto peggiorare la propria qualità di vita, derubati del loro privato e con l’organizzazione famigliare spesso stravolta. Nel mentre che la contrattazione nazionale del commercio (con 3,7 milioni di dipendenti, prima categoria d’Italia), non viene realmente rinnovata erodendone il potere d’acquisto degli stipendi, viene anche meno il tempo da passare coi propri affetti (come già nella sanità, trasporti, sicurezza, tempo libero), implicando anche effetti sociali negativi, per la conseguente disgregazione delle famiglie.
Al di là delle sue intenzioni, forse con quelle parole Giggino (Di Maio) non ha detto qualcosa di troppo sbagliato, così come con quelle dei suoi detrattori (in primis Renzi e Confcommercio), sono state riportate tante partigianerie e inesattezze. Però, l’aver posto la questione in ottica repressiva e limitativa non è stato certo un buon segnale, almeno per i mercati: se invece di fare demagogia spicciola, avesse parlato di migliori retribuzioni, di aumento dei livelli occupazionali (non è il Ministro del Lavoro?), di maggiore equità per tutti coloro che lavorano nei festivi, forse non avrebbe allarmato gli investitori ed avrebbe ottenuto un qualche risultato. Quello che ad oggi sembra essere diventato secondario, accantonabile, “sacrificabile”, sull’altare del più gettonato reddito di cittadinanza.

di Mario Guido Faloci

 

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