Il lotto 285 – capitolo diciassettesimo

“I fatti narrati da questo libro sono inventati. All’interno dell’invenzione sono veri.”

Robert Schneider

Lo sferragliare e il dondolio del tram mi dava un senso di vertigine, come se le rotaie fossero sospese su un precipizio da ambedue i lati.  Ed in effetti il veicolo stava procedendo in quel momento su di un cavalcavia che sormontava una via larga e trafficata che, mi venne in mente, mi era già apparsa nel primo sogno. Mi sporsi dal finestrino e guardai in basso e vidi che la via, tagliando attraverso i depositi ferroviari,  si ricongiungeva ad un agglomerato di case dove avevo immaginato ci fosse stato il fatidico Lotto 285. Fui subito preso dalla tentazione di scendere dal tram in corsa, che procedeva molto lentamente, e di incamminarmi lungo il cavalcavia per scendere nella via sottostante, ma i binari sembravano essere poco sicuri in quel tratto ferroviario, essendo anche le ringhiere ai lati state divelte, probabilmente dallo scoppio di qualche bomba caduta sul deposito sottostante. Mi dissi allora che era meglio arrivare alla fine corsa  per essere più sicuro che mi stessi avvicinando alla mia meta.

Intanto notai che i vagoni erano molto affollati ed alcuni viaggiatori erano costretti a rimanere in piedi nel corridoio. Si trattava in maggior parte di contadini che portavano i prodotti delle loro coltivazioni per smerciarli in città. Il clima, per metà autunnale e per metà ancora estivo, rallegrava i viaggiatori, i quali avevano abbandonato i fazzoletti colorati attorno al collo, con i quali si asciugavano il sudore, per lasciare che il soffio d’aria fresca entrasse dai finestrini aperti e li investisse piacevolmente.

 Alcuni tenevano in grembo grandi sporte coperte da panni dai quali si intravedevano varie mercanzie: grossi grappoli d’uva, addirittura una gallina starnazzante dal piumaggio e creste multicolore, cavoli e verze, mazzi di cipolle e ravanelli. Alcune giovani donne tenevano stretti al seno piccoli fagotti dai quali sporgevano testoline di neonati le cui boccucce succhiavano avidamente il latte materno. E di latte ce n’era in abbondanza, in grossi contenitori di alluminio a tenuta stagna o in bottiglioni riversi nelle grosse ceste di vimini. E ancora formaggi, cardi e sedani, erbe e spezie dai profumi invitanti. Sembrava di essere in un bazar orientale. D’un tratto le facce dei viaggiatori si fecero più serie e quasi sospettose quando mi notarono, seduto in disparte, avendo io ai loro occhi un aspetto diverso dal loro, con vestiti di foggia  quasi militare e una pistola che si intravedeva sotto l’ascella. Ma nel mio assetto non vi erano segni di riconoscimento dell’appartenenza o meno a qualche arma. Potevo essere un contrabbandiere o un transfuga, visto che il mio vestire era trasandato, la mia giubba sgualcita, il capo senza alcun cappello, scarponi da montagna e pantaloni ripiegati stretti sopra le caviglie.

Per non destare ulteriori sospetti mi recai quindi verso la parte anteriore del tram, dove il macchinista azionava celermente i comandi e potei scorgere, dall’ampio vetro centrale, quasi ci stesse venendo addosso, un tempio romano dalla forma rotonda che si ergeva sulla destra, quasi ad annunciare che si era in prossimità delle mura che contornavano la città. Espressi allora al guidatore, che sembrava non essersi accorto della mia presenza, i miei sensi di gratitudine per avere portato, me e gli altri numerosi passeggeri , dopo tutte le traversie che avevamo affrontato, finalmente in vista della città, che mi appariva ora in tutta la sua grandezza.

Dopo qualche tratto di percorso in un groviglio di binari,  tra scambi e segnali di via libera, il tram azzurro entrò diritto in un’ampia piazza attraverso un arco che rappresentava la maggiore porta che nell’antichità si apriva sulle mura che circondavano la città romana. Probabilmente quella piazza rappresentava il capolinea di quella linea proveniente dal sud ma il tram continuò la sua corsa fino a fermarsi poco dopo definitivamente quando i binari finirono contro i respingenti che interrompevano la linea.

Essendo sicuro di essere a fine corsa scesi dal mezzo e mi trovai su una banchina prospiciente all’ingresso di una stazione ben più ampia e moderna rispetto a quella dalla quale eravamo partiti. Sul lato sinistro c’era un ennesimo cavalcavia sotto il quale passava un tunnel che imboccai sperando di sbucare nel quartiere che avevo visto pocanzi di sfuggita da sopra il tram. Intanto i viaggiatori erano scesi quasi tutti dal mezzo e si erano dispersi in varie direzioni che però conducevano tutte ad un grande mercato poco distante. Solo un passeggero, che non avevo notato durante il percorso, era rimasto a bordo oltre il conducente e qualche ritardatario. Questi, quando mi vide che mi avviavo verso il tunnel scese precipitosamente e mi raggiunse, ma senza accostarsi, quasi tentasse di far credere che andava casualmente nella  mia stessa direzione. Aveva un’aria professionale e teneva una cartella di pelle sottobraccio e ogni tanto mi scrutava con un fare furtivo. Io affrettai il passo cercando di superarlo e di far perdere le mie tracce ma quello mi stava alle calcagna come un segugio. Mi venne ad un certo punto il sospetto che si trattasse di una spia o di un agente dei servizi segreti, visto che continuava a lanciarmi occhiate di sottecchi, quasi fosse sicuro di ritenermi la persona da individuare e, forse, da fermare.

Senza stare tanto a pensarci svoltai l’angolo alla fine del tunnel e mi diressi, costeggiando le mura della città vecchia, verso un arco sotto il quale sembrava di potesse accedere al quartiere. Appena varcai l’antica porta mi trovai davanti a uno sfacelo. Le basse case caratteristiche di quel luogo erano quasi tutte crollate, i pali della luce abbattuti, l’impianto idrico saltato e fumi di incendi ancora si alzavano  dagli scheletri di quei muri. Lo scalo merci che si trovava vicino era quasi completamente distrutto, i depositi paralleli alle rotaie che avevo immaginato nel mio primo sogno erano sventrati, i binari divelti, le strade che lo raggiungevano disselciate. Sembrava che i risultati dell’attacco aereo di tre mesi prima si fossero eternati, il tempo bloccato come in una funebre istantanea. Rivivevo così i racconti del capitano, vedevo per la prima volta con i miei occhi quel disastro, non osavo pensare ai feriti, forse ancora ricoverati negli ospedali, ed ai morti dissepolti ed ai nuovi che ancora attendevano la sepoltura, tutto l’orrore  che quel bombardamento aveva causato. Le gambe cominciarono a tremarmi, gli occhi a chiudersi, le mani ad aggrapparsi a qualche ringhiera ancora in piedi nel parco che nel frattempo avevo raggiunto. Non pensai più alla figura che mi stava alle costole, forse anche lui un sopravvissuto o forse un rappresentante di quel regime che aveva permesso con la sua entrata in guerra quella strage di civili, alla quale altre sarebbero succedute inesorabilmente. All’estremità del giardino vidi sulla sinistra una stradina leggermente in salita che pareva condurre ad una zona meno colpita. La percorsi fino ad arrivare ad attraversare una grande arteria, che doveva essere la via consolare e, proseguendo, sbucai in un grande piazzale con aiuole spartitraffico, ai cui lati se ergevano una caserma, un alto edificio con una scalinata che doveva essere la Scuola di Guerra Aerea, un grande edificio con l’ingresso sormontato da un ornamento in marmo che rappresentava un aereo con le ali dispiegate che si prolungavano in quelle di un’aquila. Era strano come quegli enormi edifici fossero rimasti intatti mentre poco più sotto un intero quartiere era stato quasi completamente distrutto ma pensai che forse quegli edifici rappresentassero, per i liberatori, i simboli del potere e come tali andassero preservati anche dai continui attacchi aerei.

 di Maurizio Chiararia

(continua)

 

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