Transustanziazione, popolo e governo

“Noi siamo il popolo”: questo il cruciale slittamento semantico che l’attuale governo italiano proclama ormai di sé stesso dai balconi del vecchio Palazzo. Da rappresentante, difensore del popolo passa a essere di rettamente il popolo. Alla fredda, triste legge delle compatibilità economiche europee, il nostro governo oppone l’incandescente magma del vero potere fondativo delle nazioni, ossia quello dei popoli. Mentre l’Europa, nell’idea di Altiero Spinelli e del suo Manifesto di Ventotene, era proprio il superamento di quei contenitori di popoli che sono i confini nazionali e che tante sciagure belliche avevano loro causato, ora popoli e frontiere tornano a riemergere come suture mai rimarginate sotto la febbricitante epidermide geografica del Continente.

L’Europa, però, è mai stata davvero un superamento, o un serio tentativo di superamento dei suoi vecchi Stati e confini? No, perché agli Stati è stata anzi lasciata una pressoché totale autonomia politica. L’intangibilità politica di ogni singolo Stato componente dell’Unione, veniva però sottoposta a un criterio che era in sé già fuori della Politica, e anche oltre la Democrazia, così come intese nella tradizione liberale e sociale dell’Occidente. Il criterio non è stato dunque quello di un’unificazione politico-democratica, ma solo di rispetto e soggezione a parametri economici, algebricamente, matematicamente stabiliti. Ossia: la Politica, come fondamento ontologico ed esito storico della modernità occidentale, è di fatto messa in secondo piano a favore di una fondazione più certa: quella della scienza economica. Scienzatriste, come è definita, ma pur sempre scienza, ossia argine alla aleatorietà deleteria, squassante della politica, anche nella sua versione democratica. Così, se prima l’economia era direttamente definita in termini di politica economica, ossia sottoposta alla politica, ora l’Europa tenta un ribaltamento epocale. Epocale, perché proprio l’inarrestabile ascesa nel cielo d’Occidente della scienza e della tecnica segna l’inevitabile tramonto della politica.

Alla gelida, funerea algebra tecnocratica di Bruxelles e Francoforte, Roma risponde con la gioiosa e infuocata Manovra del Popolo. Se il Continente fa squillare le trombe del suo ultimatum a contenere l’aumento massimo del nostro debito pubblico entro l’1,8%, per tutta risposta la Nazione italica – come Pier Capponi –fa suonare le proprie campane, sfondando quel limite e portandolo al 2,4%. E lo fa non piùin nome, ma in quanto popolo italianodirettamente sussunto, anzi transustanziato dentro l’assetto governativo e la lista dei ministri e sottosegretari, da Giorgetti a Toninelli. E tale controffensiva, rivincita delle vecchie patrie e delle frontiere è destinata a ripercuotersi sull’intero assetto continentale, attraverso le prossime elezioni europee.

Dalla Prima alla Seconda alla Terza Repubblica c’è d’altronde un altro algebrico fattore di impressionante continuità: quello dell’aumento del debito pubblico. Tralasciando ora la Prima Repubblica, c’è da dire che il nostro debito sono trent’anni – fino all’ultimo governo Gentiloni – che non fa che aumentare. A giugno 2018 esso raggiunge i 2.341,7 miliardi di euro, pari a quasi il 132% del Prodotto Interno Lordo (PIL). Per questo Bruxelles e Francoforte chiedono di farlo gradatamente rientrare, restringendo il suo aumento entro limiti annuali sempre più bassi. In Italia, però, dalla Democrazia Cristiana al M5S-Lega, il significato stesso del termine “politica” ha perfettamente coinciso con quello di “debito pubblico”. Sia la politica politicante, sia la sua coniugazione in politica economica da noi si fa manovrando il debito pubblico, ossia espandendolo. L’alibi è stato e continua a essere questo: si mette in circolazione più possibilità di acquisto per le famiglie, così da aumentare la domanda interna e di conseguenza gli investimenti da parte delle aziende, che si tramutano a loro volta in crescita dell’occupazione e della ricchezza nazionale. Aumentando il PIL, diminuisce proporzionalmente la risultante cifra in percentuale del debito pubblico. Ossia, aumentando la cifra che sta sopra, il numeratore, in una frazione algebrica, anche se il denominatore, la cifra che sta sotto, aumenta di poco, ecco che il rapporto percentuale finale sarà diminuito. È quello che sostiene anche l’attuale governo: diminuiremo percentualmente il debito aumentando il numeratore, il prodotto lordo, ossia la ricchezza della nazione.

A questo ragionamento – teoricamente in sé legittimo – si oppone un’inquietante voragine algebrica sul cui bordo continua a oscillare l’Italia. Quella dell’immane evasione fiscale, degli ingenti sprechi, ladrocini inefficienze, malversazioni, corruzioni legalizzate dell’amministrazione statale e dell’economia nera, sommersa. Una cloaca calcolata in circa 500 miliardi di euro che si scarica annualmente sul debito pubblico, inquinandolo irreversibilmente. Il popolo tedesco continuerà a domandarsi polemicamente, e anche strumentalmente se volete, ma non falsamente: “Perché le mie tasse devono continuare a pagare anche la bella e indisturbata vita di evasori, ladri, corrotti e mafiosi italiani?”.

Qui cade l’asino: il popolo sussunto e transustanziato direttamente nella forma sacramentale di governo del cambiamento, non sta cambiando proprio niente, se non le parole. Il condono lo chiama pace fiscale, ma il risultato algebrico è quello di continuare a finanziare, aumentare un denominatore di piombo nero, di taglieggiamento lurido, delinquenziale del reddito nazionale, destinato a inceppare ogni virtuoso moltiplicatore economico. Secondo la teoria keynesiana, ogni incremento di investimento o spesa pubblica si ripercuote con un effetto di moltiplicazione dentro l’intero ciclo economico. Ogni euro investito può tramutarsi in dieci, venti euro di incremento reddituale complessivo. Questo, però, dentro una cornice economica non aberrata da fattori di letale distorsione, quali la non trascurabile parte di spesa pubblica che continua a essere inghiottita dalla più illegale delle mani morte d’Europa. Lo scontro è destinato ad acuirsi, proprio perché esso è tra la l’attuale trans-nazionalità dell’economia e tali non più tollerabili retaggi politici locali, nazionali.

Dentro il cono d’ombra di tale economia, inoltre, si cela anche tutta l’illegalità dello sfruttamento, maltrattamento, sotto pagamento, non pagamento, schiavismo degli attuali rapporti di lavoro soprattutto per i giovani. Insieme a quello fiscale, delinquenziale e corruttivo, anche l’ammontare di questo osceno profitto aziendale, è pari al peso gravitazionale che invisibilmente, oscuramente precipita dentro la galassia del debito pubblico, sottraendo redditi, risorse, energie sociali proprio a chi dovrebbe incrementare la ricchezza e la resurrezione nazionale. Le parole cambiano, dal vetusto latinorum elettorale al nuovo populorum tecno-millenario, ma la Messa dell’italico potere reale appare restare la stessa. E la transustanziazione del popolo è più sulla intatta croce sociale che sul trans-mutante aspetto ministeriale.

di Riccardo Tavani

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