Asia Bibi, accusata di blasfemia, assolta ma non ancora libera: il Pakistan in bilico tra progresso e fondamentalismo

La religione è “l’oppio dei popoli”, sosteneva nel secolo scorso un uomo chiamato Karl Marx e, nelle mani degli uomini, ha seminato più morte che non professato pace. Esemplare in tal senso il caso di Asia Bibi, cattolica pakistana accusata di blasfemia e da giorni al centro di un braccio di ferro tra chi la vuole assolta e chi vorrebbe giustiziarla in piazza.

La Bibi viene arrestata nel 2009 con la accusa di blasfemia, perché cattolica in un Paese a maggioranza musulmana. Nel 2010 la corte di Lahore la condanna all’impiccagione. Nel 2015 viene presentato un ricorso, poi vinto come dimostra l’assoluzione disposta dalla Corte Suprema; a seguito di questo esito favorevole Asia Bibi sarebbe dovuta partire per l’Olanda ma gli islamisti sono intervenuti scatenando nel Paese un’ondata di proteste che ha come obiettivo proprio la revoca dell’assoluzione. Per placare le acque è stato lo stesso governo ad acconsentire la permanenza della Bibi nel Paese, siglando un patto con gruppi radicali islamici e sunniti.

La donna, oramai famosa in tutto il mondo, viveva nel villaggio di Ittanwali, nella regione del Punjab: è proprio da qui che parte la denuncia di alcune concittadine che accusano la Bibi di un presunto reato contro il profeta Maometto. Inizia così il calvario della 47enne pakistana, madre di cinque figli, in carcere da 8 anni e appena rilasciata, nella notte tra il 7 e l’8 novembre. Dal Punjab la Bibi è stata condotta prima a Islamabad e in seguito in una località segreta per chiari motivi di sicurezza.

“Se Asia lascia il Paese ogni membro della sua famiglia sarà ucciso” ha commentato Ashiq Masih, marito della donna costretto a continui spostamenti per seminare le sue tracce. La Bibi in primis, ma anche tutta la sua famiglia si sentono in pericolo e l’instabilità nel Paese ha portato le autorità pakistane a chiedere aiuto agli Stati Uniti, il Canada, il Regno Unito, l’Italia. Il ministro Salvini ha annunciato di “lavorare con discrezione, accanto ad altri paesi occidentali”. Aggiungendo: “Il nemico è il fondamentalismo, non il Pakistan”. L’Olanda da alcuni giorni ha offerto asilo politico all’avvocato della donna, fuggito dal Pakistan lo scorso 6 novembre. Al termine del vertice parigino che ha visto leader mondiali commemorare la fine della prima guerra mondiale, il primo ministro canadese, Justin Trudeau, ha annunciato l’inizio delle trattative con il Pakistan per ospitare la pakistana cristiana.
Ha stupito il no da Londra che un tempo aprì le porte a Salman Rushie, ateo perseguitato dal 1989, e Malala Yousafzai, musulmana al centro delle mire di gruppi talebani. Il rifiuto avanzato nei confronti di Asia Bibi è stata giustificato dal timore di ripercussioni nel Paese, vista la forte componente fondamentalista. Risuona ancora forte l’eco di casi come quello di Asad Shah, 40 anni, commerciante di Glasgow (Scozia) freddato nel 2016 perché, in quanto cristiano, augurò una buona pasqua a dei clienti. L’ordine partì da Bradford, città nel Regno Unito dove la prima lingua non è l’inglese ma l’urdu, di origini indoiraniche.

Questa storia ha già fatto un morto, ma quello che sembra essere il suo epilogo ha reso qualcuno felice: “Il caso di Asia Bibi era un cavallo di battaglia di mio fratello. Il suo sacrificio non è stato inutile: stiamo andando verso il Paese che voleva”. A parlare è Paul Batthi, politico cattolico, fratello di Shahbaz Bhatti, ministro per l’armonia religiosa assassinato il 2 marzo 2011 proprio perché strenuo difensore della Bibi.
Il giudice che ha decretato l’assoluzione è musulmano e nelle 57 pagine della sentenza spiega quanto sia “anti islamico” imporre la propria fede a qualcun altro. “La corte suprema ha dimostrato coraggio e voglia di verità”, ha commentato ancora Batthi.

Il precedente di Rimsha Masih, assolta ed espatriata in Canada nel 2013, lascia ancora intravedere uno spiraglio di luce per Asia Bibi e tutto il Pakistan.

di Irene Tirnero