Venezuela: un paese sull’orlo della guerra civile
Quello che una volta era il blocco occidentale sta spingendo sul Venezuela gli spettri siriani, libici e iracheni.
Nel 2003 è stato il pretesto d’inesistenti armi di distruzione di massa a portare all’invasione dell’Iraq. Nel 2011, stavolta con l’obiettivo di portare la democrazia, un intervento multinazionale ha rovesciato e assassinato Gheddafi e fatto precipitare la Libia nel caos. Sempre nel 2011 in Siria, anche qui per portare la democrazia, i paesi occidentali hanno prima favorito una guerra civile e poi sono intervenuti direttamente con l’obiettivo di far cadere il regime siriano.
Tre guerre, i cui esiti sono davanti agli occhi di tutti, “vendute” alle opinioni pubbliche come necessarie a difenderle dalle armi di distruzione di massa, indispensabili al mantenimento della pace e della stabilità, utili alla difesa dei diritti umani, della democrazia e dell’uguaglianza di genere.
In verità si è sempre trattato di guerre di conquista che miravano alle risorse naturali, innanzitutto gas e petrolio, di quei paesi. Pure guerre neocoloniali.
Il prossimo bersaglio, quello grosso, è il Venezuela. Non è difficile rintracciare i punti in comune tra le politiche che hanno portato allo smembramento libico e alla distruzione siriana e quelle oggi applicate al Venezuela. E’ evidente la stessa volontà di fondo: distruggere i paesi non allineati se ricchi di risorse minerarie.
Quello che oggi dovrebbe giustificare agli occhi dell’opinione pubblica l’intervento militare, oltre naturalmente alla sempreverde esportazione della democrazia, è l’emergenza umanitaria. La strategia mediatica è quella di far crescere nell’opinione pubblica internazionale l’idea che il Venezuela sia ormai uno stato fallito che affama i suoi cittadini.
Certo, è difficile credere che la chiave del conflitto sia di natura sociale. Il Venezuela ha grandi giacimenti petroliferi, è situato in una posizione strategica e costituisce una cerniera tra i due subcontinenti. La questione è squisitamente geopolitica.
La strategia statunitense si è dispiegata in tre mosse. Prima, con un embargo su cibo e medicinali e con il sequestro di 10miliardi di dollari, gli Usa hanno strangolato economicamente un paese già di suo mal governato. Poi, con il sostegno dei media, hanno posto l’accento sulla crisi umanitaria in atto e, quindi, preparato l’intervento militare necessario per portare al popolo gli indispensabili aiuti.
Quello in atto è il tentativo, per via umanitaria, di ingenerare una guerra civile che faccia del Venezuela la Siria latinoamericana. L’esito di un intervento militare non potrebbe che essere la frantumazione dell’unità del paese e, conseguentemente, il caos, il terrorismo e la violenza.
Il prossimo passo è quello di utilizzare cibo e medicine come un novello cavallo La strategia militare è semplice. Si stanno creando tre centri di raccolta degli “aiuti” ai confini del Venezuela che, però, la Croce rossa internazionale si rifiuta di distribuire perché non considera quello in atto un aiuto umanitario. Per la CRI si tratta di un’operazione priva dei caratteri distintivi d’indipendenza, imparzialità e neutralità, principi che l’Onu considera fondamentali in questo tipo di interventi.
Secondo gli strateghi militari, il primo tentativo di entrata “umanitaria” nel paese potrebbe avvenire dalla Colombia al confine nordorientale del Venezuela, da sempre uno storico bastione della destra conservatrice. Da qui il controllo militare potrebbe spostarsi negli stati di Mérida e Trujillo, isolando così il centro del paese.
Un ruolo, non secondario, nell’operazione è ricoperto dalla Colombia, governata dall’estrema destra del presidente Iván Duque. I servizi americani di stanza in Colombia stanno raccogliendo gruppi paramilitari e bande legate al narcotraffico. Certo, nonostante il supporto Usa, è improbabile che un tale “esercito” sia in grado di sconfiggere quello bolivariano.
Trump, però, non punta sulla vittoria militare ma sul precipitare delle condizioni di vita che il conflitto provocherebbe. Sogna una rivolta popolare che, secondo i piani, dovrebbe sfociare nell’agognato cambio di regime.
L’autoproclamato presidente Juan Guaidó sostiene che i venezuelani, pur di ottenere un cambiamento, sono disposti a combattere una guerra civile. I risultati di un sondaggio dell’istituto Hinterlaces rivelano, invece, che l’86% della popolazione si oppone a un intervento militare e che l’84% è a favore del dialogo tra governo e opposizione.
Quanto pesi, nonostante la fanfara democratica, l’opinione del popolo venezuelano è però facile intuirlo.
di Enrico Ceci