Prima il regime, poi l’Isis: l’altra guerra è sulle donne

Lei si chiama lham Amare, è la fondatrice della Casa per le vittime di abusi domestici nel Rojava curdo e lotta per la parità dall’età di 16 anni.

Il telefono non smette mai di squillare, giorno e notte. Le emergenze non sono finite con il Coronavirus anzi, sono aumentate, perché anche nel Nord-Est della Siria tutti sono in quarantena, chiusi in case che non sono un rifugio d’amore e pace bensì gabbie in cui spesso avvengono carneficine.

Quindi soprattutto ora le donne sono in pericolo ed hanno bisogno di aiuto.

Possono chiamare i numeri messi a disposizione dalla Malê Jin, la casa delle donne. A rispondere Ilham Amare, 50 anni, e fondatrice della casa che aiuta a risolvere tutti i problemi famigliari con la mediazione, prima di chiamare le autorità e arrivare in tribunale.

Spiega quale sia la difficile situazione delle donne in Siria: prima c’era il regime siriano, poi è arrivato l’Isis, in mezzo la cultura feudale, patriarcale. Per l’universo femminile la vita era fatta solo di obblighi, regole, restrizioni e soprattutto nessun diritto.

Donne picchiate, violentate, massacrate, legate in catene per non uscire di casa. Ed è stata tutta questa sofferenza, sommersa e solo a tratti gridata che ha spinto Ilham Amare a fare qualcosa di concreto già all’età di 16 anni.

A quei tempi i curdi erano oppressi dal regime di Assad, prima padre e poi figlio. Nessun diritto e chiunque avanzasse richieste era visto come un nemico dello Stato. Quando ha cominciato nel 1988, erano in otto. Bussavano ad ogni porta, raccoglievano informazioni sulle condizioni in cui vivevano le donne, parlavano con le famiglie, o nei casi più difficili trovavano soluzioni per farle scappare. Il regime era assolutamente contrario a tutte le loro attività e per questo dovevano lavorare in completa segretezza.

Ilham è stata in carcere ben tre volte, la prima nel 1989, quando aveva appena 17 anni. Racconta che fu un’esperienza terribile e che ne porta ancora i segni sul corpo e nell’anima. Venne torturata e umiliata ma quelle violenze anziché farla desistere dal suo scopo le diedero l’energia, la rabbia e la forza di lottare ancora di più.

La prima Casa fu inaugurata a Qamishlo nel 2011, oggi ce ne sono 52.

Lo dice con un’emozione che fa commuovere. In quell’occasione il regime

aveva circondato l’isolato per non far arrivare le persone all’inaugurazione ma loro, le donne che con lei avevano contribuito a creare quella prima Casa, scesero con i bastoni, pronte a tutto pur di non soccombere. E così fu.

Nel 2014 Ilham Amare ha aiutato a sviluppare un pacchetto di leggi per la famiglia, implementato dall’amministrazione autonoma che considera la lotta delle donne, uno dei cardini della rivoluzione. Banditi i matrimoni minorili, la poligamia, vietato il lavoro minorile, richiesta la protezione per le vittime di violenze.

E’ sorpresa nell’apprendere, durante l’intervista, di tutte le donne che vivono anche in paesi democratici e benestanti, che spesso se vanno direttamente dalla polizia per denunciare i compagni o i mariti non ricevono alcuna protezione. Si chiede perché queste donne non si rivolgano prima ai gruppi femministi o alle associazioni che si occupano di violenza, perché per lei e per il paese in cui vive, la polizia non è mai la soluzione e sono le donne stesse a doversi proteggere.

Parla Ilham, racconta tutto ciò ha visto, tutto ciò che lei stessa ha patito, le conquiste fatte, la realtà del suo Paese che certo non aiuta, la determinazione ad andare avanti e quella certezza di dover educare tutte le persone, non solo le donne, se vogliono finalmente vivere in mondo migliore.

Ed è una verità che vale per tutti i paesi. Sarebbe davvero bello, utile ed interessante portare le esperienze di tutti gli Stati, per fare il punto della situazione fino ad arrivare ad una sorta di “carta dei diritti” per le donne, che si possa applicare per il bene delle vittime di tutto il mondo, senza distinzione di confini, culture, razze, democrazie o regimi.

Perché alla fine a soffrire sono in primis le donne ma anche i bambini, osservatori involontari di ciò che avviene nelle loro case, futuri adulti che cresceranno con la convinzione che certi comportamenti siano naturali se non addirittura dovuti.

Ecco perché ovunque è necessario “educare” la popolazione nel suo insieme.

Una semina lenta che produrrà alla fine un ottimo raccolto.

“Educare” quindi, come parola chiave del cambiamento.

 

di Stefania Lastoria

 

Print Friendly, PDF & Email