In panchina con Jackie Robinson: ritratto intimo di una leggenda del baseball

Lo scorso 31 gennaio si è celebrato il centenario della nascita di Jack Roosevelt “Jackie” Robinson”, leggenda americana del baseball passato alla storia per il ruolo fondamentale che ebbe nella lotta contro il razzismo. Jackie era un ottimo giocatore, un giovane molto promettente, con un unico, grande difetto: la pelle dal colore troppo scuro per l’epoca. Jackie sin da bambino si rivelò molto portato per lo sport, come del resto gli altri componenti della sua famiglia.

Ultimo di cinque fratelli Jackie fu spinto a praticare sport da Matthew, atleta di alto livello nell’atletica leggera, medaglia d’argento ai Giochi Olimpici di Berlino del 1936, e si distinse in ben 5 sport differenti. Ma Jackie non era solo atleticamente dotato: grinta, coraggio e sete di rivalsa, unite a calma e diplomazia, rappresentarono il mix perfetto per sfidare l’impossibile, e superare barriere che apparivano insormontabili. Una carriera militare interrotta nel 1944 (anche a causa di un procedimento a suo carico che lo vide comparire di fronte alla corte marziale per essersi rifiutato di sedersi in fondo ad un autobus dell’esercito, laddove non esisteva alcuna legge che obbligasse i neri a farlo ma che di fatto era una consuetudine) fu il preludio di una storia destinata a cambiare il cuore e la mente americana.

Nel 1945 Jackie accettò la proposta del Kansas City Monarch, squadra che militava nella Negro League (campionato parallelo riservato agli afroamericani) e divenne un giocatore professionista di Baseball. Fu la lungimiranza di Branch Rickey, presidente dei Brooklyn Dodgers, a cambiare la storia: determinato ad inserire un giocatore di colore all’interno della propria squadra avviò un’attività di reclutamento nella Negro League, e Jackie risultò essere il giocatore più promettente. Dopo un periodo di militanza nella squadra dei Montreal Royals, affiliata alla prima squadra e facente parte della International League, Jackie, il 15 Aprile 1947, esordì con i Brooklyn Dodgers. Contestato da tutti, dai suoi compagni di squadra in primis, Jackie dovette superare ogni tipo di difficoltà: insulti di ogni genere, minacce di morte indirizzate a lui e alla sua famiglia, una petizione firmata dall’intera squadra per il suo allontanamento, provocazioni di ogni sorta da parte del pubblico e delle squadre avversarie, di cui divenne il principale bersaglio del “gioco duro”.

Jackie dovette accettare di fare la doccia separatamente, fu la causa del rifiuto da parte di un hotel (in cui normalmente alloggiava) di ospitare la squadra, la causa di minacce di sciopero da parte dei giocatori delle altre squadre nel caso in cui Jackie fosse sceso in campo. Qualcosa cominciò a cambiare nel 1948, quando un suo compagno di squadra, Pee Wee Reese, prima dell’inizio di una partita, per rispondere agli insulti razzisti, mise platealmente un braccio sulle spalle del compagno. A poco a poco Jackie conquistò il pubblico con le sue prodezze sportive e divenne una leggenda, arrivando ad abbattere definitivamente il muro delle discriminazioni razziali.

Oggi il numero indossato dal giocatore, il 42 (titolo anche di un bellissimo film che ne racconta la storia), è stato ufficialmente ritirato dalla federazione in onore dell’uomo che l’ha indossato, e ogni 15 Aprile tutti i giocatori (in ricordo del suo esordio) scendono in campo con la sua maglia. Quest’anno, a 100 anni dalla sua nascita, New York ha dedicato una mostra al mito del baseball e pioniere della lotta razziale nello sport: “Jackie Robinson: ritratto intimo di una leggenda del baseball”. Dedicato all’uomo che, armato solo di guantone e di mazza da baseball, ha sfidato e battuto i pregiudizi di un’intera nazione.

di Leandra Gallinella