Il lotto 285 – Capitolo trentadue

“Partigiano, come poeta, è parola assoluta, rigettante ogni gradualità.”

Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny

  “Noi subiamo la superstizione che attribuisce ai morti i desideri e le reazioni dei vivi, la nostra immaginazione non può farne a meno, ma l’abisso è troppo grande e a loro non importa più nulla delle cose che volevano quando erano in vita, neppure di quelle che hanno voluto per ultime.”

Javier Marìas

   Forse una fede ancora ci sorreggeva, quasi fosse dovuta all’imperscrutabile volere Divino, ma la cosa era  difficile da credere in quelle anime perse nel gorgo della guerra. Faceva eccezione la mia compagna, devota quanto non mai al nostro Salvatore, anche se con un accento mistico che faceva ricordare le eroine medievali, sacrificatesi per non dover abiurare una fede che le sorreggeva nei momenti più bui.

   l’Amore era forse quello che ci spingeva verso mete irraggiungibili, ma condivise e perciò realizzabili. Cosa avremmo fatto senza le nostre donne accanto, senza quel patto di fedeltà reciproca che avevamo stipulato quel giorno intorno alla fontana, in quel freddo giorno di novembre? Cosa saremmo stati? Forse degli imbelli servitori o, tutt’al più dei privilegiati, viste le nostre facoltà intellettive e le nostre origini borghesi? Molti di noi, asserviti al regime, godevano di stima e di protezione, altri sopportavano a stento le direttive che venivano loro impartite, ma altri si ribellavano e finivano in carcere o al confino. Noi, per fortuna o per censo, diventammo subito antifascisti, anche se quella parola non veniva ancora usata fra di noi.

   Ognuno si crea il proprio Dio, sia per una sorta di desiderio di protezione sia per giustificare le sue nefandezze in suo nome. “Deus vult”, “Gott mit uns”, “Nessuno di voi è morto finché noi non morremo tutti”.  L’istinto di morte che prevaleva nella loro coscienza  li spingeva ad azioni crudeli nelle quali, o soccombevano o facevano soccombere i loro avversari. Era una lotta all’ultimo sangue, ma ispirata da regole che trascendevano la loro volontà e li rendeva complici, ed alle volte invece traditori, di quelle assurde professioni di fede che  pur vedevano la guerra ed il conflitto totali come contrarie ai loro originari principi di civiltà e di progresso. Salvare i propri confini  attraverso una guerra di conquista di altri territori erano le due facce della stessa medaglia, come quella che sapevamo ancora addosso ai due nostri amici caduti, quella semplice piastrina  di metallo dal contenuto speculare, che si ergeva come simbolo dei nostri e dei loro confratelli.

   Fu quel ricordo a farci intravedere quel luccichio di speranza che ardeva ancora nelle nostre coscienze, per cui il gettarsi nella mischia assumeva un significato profondo che era quello dell’amor di patria cui si abbarbicavano i nostri cuori a dispetto di ogni pericolo. Vedere tanti morti intorno a noi faceva sorgere un’incontrollabile repulsione per la guerra, tanto da volgersi verso il nemico con un sentimento di pietà.  Nel vedere quei giovani soldati come noi (anche se al servizio di un disegno di oppressione ed annientamento) stanchi, lontani dalla patria, ci confondeva a volte l’animo, tanto da volerli quasi abbracciare in un comune afflato di generosa comprensione.

   .Quasi indovinasse le mie sconnesse elucubrazioni, ancora una volta fu lei a raccontarmi un’altra delle sue avventure, certo più interessanti delle mie, mentre io tacevo sui miei sogni che parevano realtà e sulle realtà che parevano sogni, che mi avevano accompagnato nel mio cammino verso la città.

   “Sulle spalle portavo un grande zaino con cibo e vestiti, dovevo assolutamente arrivare in un casale per incontrarmi con alcuni partigiani e portare un messaggio orale. Ricordo che sulla via provinciale incrociai dal verso opposto una formazione in ritirata di camion con giovani soldati tedeschi che tornavano a casa e cantavano “Andiamo a casa, a casa, dove staremo bene…”. Potevano avere tra i sedici e i diciotto anni. Era come se li avessi sentiti figli miei. Quel canto mi fece soffrire …Tu lotti per una cosa e improvvisamente trovi un fratello che lotta dall’altra parte. Sono cose che non passano mai, io le ricordo per tutta la vita. Quando arrivai sul luogo dove ero diretta, trovai tutti gli alberi tagliati e i tedeschi che dormivano per terra. Li scavalcai tutti e mi infilai nel fienile del casolare. La mattina dopo al risveglio, erano andati via tutti. Il mio sacco con i vestiti era sparito, ma accanto a me c’era una fotografia di Beethoven.”..

    L’amore certo la spingeva ad aprirsi con quella sincerità e lealtà d’animo senza che io potessi ricondurre quella confessione a qualcosa che avevo anch’io provato quando mi ero imbattuto in quella strana figura femminile di milite nella mia visita alla caserma delle ausiliarie, e mi venne in mente che anche lei, ma in maniera più concreta e responsabile, stesse pensando a quel luogo immaginario che io andavo cercando e che per me, e forse anche  per lei, rappresentava l’inizio della fine di tutti quei drammatici eventi. Il Lotto 285.

Questi ed altri pensieri mi si affacciavano alla  mente mentre preparavo assieme al mio nucleo operativo un assalto ai militi di un battaglione nemico che avrebbe sfilato per le strade della capitale per giungere a dare man forte alle truppe già schierate sul litorale che si accingevano a respingere lo sbarco  che pochi giorni più tardi avrebbero compiuto i nostri alleati sulle spiagge vicine.

di Maurizio Chiararia

(continua)

 

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