L’impossibile evasione dalla prigione sessuale e militare del Padre

“Restiamo per tutta la vita sull’altalena del dubbio se restare o andarcene via”. Lo dice al MedFilm Festival, rispondendo alle domande pubblico al termine della proiezione del suo film All this victory, il regista libanese Ahmad Ghossein. Un kammerspiele, un dramma d’interno, di carattere  bellico-politico, girato quasi esclusivamente in un solo ambiente claustrofobico, con quattro uomini e una donna che non riescono a uscire da esso e nel terrore di essere catturati e ammazzati da un istante all’altro. Il dramma si svolge nel sud del Libano che nel 2006 è occupato dall’esercito israeliano. Mentre i cinque personaggi si trovano nella parte sottostante di una vecchia, malandata costruzione a due piani, cominciano a piovere colpi di mortaio intorno. Una pattuglia israeliana si asserraglia nella parte soprastante, piazzando le sue mitragliatrici per contrastare il fuoco dei resistenti libanesi. La battaglia ha momenti di tregua e intensificazione, senza che i soldati israeliani di sopra sospettino che sotto ci siano dei libanesi, ossia dei nemici. Uno di questi, un vecchio combattente e militante politico, soffre d’una malattia polmonare cronica e ogni tanto ha bisogno di ricorrere al suo inalatore di farmaci. Ma il dispositivo è ormai quasi vuoto e non ha più alcuna ricarica. La pressione spasmodica cui sono sottoposti i cinque personaggi non mette in risalto solo le loro differenze caratteriali, ma soprattutto le loro aspre diversità rispetto alla visione del passato, del presente e del futuro del loro Paese. Di qui il carattere fortemente simbolico del film, non solo sull’interrogativo se i cittadini libanesi possano, vogliano restare o andarsene all’estero; ma se il Libano stesso possa uscire da una condizione storica, geo-strategica che schiaccia la sua piccola dimensione territoriale dentro un conflitto, quello arabo-israeliano che lo sovrasta. Ahmad Ghossein, come molti suoi conterranei, è oggi fortemente impegnato nel movimento di massa che da un mese a questa parte sta scuotendo il Libano, nella speranza che una vecchia classe e linea politica nazionale possa essere radicalmente mutata. Anche se questo movimento interno non può agire direttamente sull’assetto generale esterno, Ahmad Ghossein è convinto che un profondo cambiamento democratico del loro quadro istituzionale e sociale, può con il tempo mutare soprattutto il rapporto con Israele.

The scarecrows, Gli spaventapasseri, del maestro tunisino Nouri Bouzid, ci porta su un’altra casella asfissiante del vasto scacchiere mediorientale. Non solo su quella magrebina, però, ma su quella tragicamente rappresentata dalla Siria. Il fenomeno del fanatismo che spinge molti giovani ad arruolarsi nelle fila della jihâd per andare a combattere in diversa zone del conflitto, è raccontato qui da un punto di vista agghiacciante, perlopiù sconosciuto. È quello del rapimento per assuefazione erotico-sentimentale, inganno, circonvenzione di migliaia di giovani donne, per renderle poi schiave sessuali dei jihâdisti combattenti. Una ragazza è corteggiata e s’innamora di un suo coetaneo, il quale poi la conduce con sé fuori del paese, in una zona di guerra santa, abbandonandola con la scusa che gli è sta affidata un’importante missione dai fratelli, in realtà vendendola, insieme anche al figlio che con lui ha messo eventualmente al mondo.

Le due sorelle Djo e Zina, sono riuscite a tornare dalla Siria, l’una incinta, l’altra con un figlio strappatole via appena finito di svezzare. In Tunisia sono accolte e assistite da un’importante avvocatessa che si occupa dei diritti civili delle persone in generale, delle donne in particolare. Ma la sorella più grande, Djo, si serra in un mutismo che la rende inaccessibile, intoccabile nella sua follia difensiva, mentre l’altra, Zina, la più giovane, deve fare i conti con la brutalità di convenzioni, pregiudizi, oltraggi, ostracismi, condanne viscerali che le riserva la società non solo intorno di lei ma anche dentro, ossia nei più intimi legami familiari. Con un andamento narrativo a impercettibile, inesorabile giro di vite, a tratti anche in stile noir, Nouri Bouzid ci svela la continuità sotterranea, davvero terrificante, infernale tra estremismo e normalità nei confronti delle donne. “Vogliamo la parte che spetta anche a noi”, urla a Zina un gruppo di uomini che la circonda davanti la porta di casa per aggredirla sessualmente. La figura del Padre, ossia del caposaldo della famiglia, della comunità, della cultura, dell’intera società mette qui in scena – non solo simbolicamente – l’impossibilità di fuoruscire fisicamente illese dalla claustrofobica, asfissiante prigione sessuale, di guerra e di costume sottostante il piano superiore occupato dalle pattuglie maschili armate sovrastanti. Una lezione di cinema e civiltà per tutto, tutto il Mediterraneo.

di Riccardo Tavani

 

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