Libia: una vita vale 12.500 dollari. Storie di tortura e sofferenza

La vita di una persona vale 12.500 dollari nel lager libico di Bani Wald, 11.200 euro circa. É il prezzo stabilito dai miliziani che appartengono alla Tribù dei Warfalla che controllano la città nel distretto di Misurata, circa 150 chilometri a sud est di Tripoli, principale snodo di migranti in arrivo dal sud della Libia e diretti verso la costa. L’economia dell’area si regge da anni sul traffico di petrolio e di esseri umani. I banditi hanno acquistato dal trafficante eritreo Abuselam Ferensawi, uno dei maggiori mercanti di carne umana in Libia, un gruppo di 66 eritrei, tra cui 8 donne. Allo schiavista eritreo sono stati pagati 14mila dollari ciascuno, i sequestrati si trovano in Libia da almeno un anno, nel corso del quale sono stati più volte venduti e schiavizzati. Nessuno di loro ha avuto il “privilegio” di riscattare la propria vita, così i Warfalla per contenere le perdite, hanno abbassato i prezzi e lasciato ai prigionieri maggiore libertà di comunicare per chiedere aiuto con i social.
Alcuni tra reporter e volontari sono così riusciti ad entrare in contatto con alcuni rapiti facendosi raccontare le loro vicende.
Ed ecco la testimonianza: “Ci torturano 24 ore al giorno e altre tre persone, in un mese, sono morte proprio a causa delle torture. Il più spietato tra gli aguzzini, si fa chiamare Hamza. É molto pericoloso, armato di fucile e coltello, ci minaccia e ci ferisce. Ci sono otto ragazze che vengono violentate sistematicamente davanti a noi mentre altri banditi ci minacciano con il coltello. Tra queste c’è Elena, ora in pericolo di vita.
Il lager di Bani Wald é noto da tempo alla giustizia italiana. Nel 2018 la Corte di Assise di Milano condannò all’ergastolo un certo Osman Matammud per aver torturato nella galera per oltre un anno, 17 persone che lo avevano riconosciuto e fatto arrestare nel settembre 2017 nel capoluogo lombardo, in cui era ospite dello stesso centro di accoglienza.
Da allora nulla é cambiato. Nessuno interviene per fermare il mercato degli schiavi del Mediterraneo, dove la vita di un subsahariano vale quanto un’auto usata.
Ci si chiede come si possa far finta di nulla senza intervenire, anche noi nel nostro piccolo, colpevoli e complici per il nostro silenzio.
Il Papa lo scorso 19 dicembre ha chiaramente ricordato che di fronte a tanti fratelli e sorelle che preferiscono affrontare un mare in tempesta piuttosto che morire lentamente nei campi di detenzione libici, luoghi di tortura e schiavitù ignobile, la nostra ignavia é peccato.
E allora, cattolici e non, consideriamoci tutti peccatori di fronte a quel Dio in cui tanti dicono di credere, salvo poi chiudere occhi e cuore, di fronte allo sterminio di una parte del nostro mondo. Un mondo troppo lontano da noi che ci crea l’alibi dell’indifferenza, una giustificazione per il nostro “non esserci, non sapere, non vedere, non provare”. Forse siamo più morti noi dentro che tanti di loro, vittime di ogni sorta di tortura che li porta alla morte fisica e prima psicologica. Il silenzio e l’indifferenza sanno essere armi micidiali che utilizziamo con eccessiva leggerezza. Che possa essere questa una riflessione di tutti verso tutti.

di Stefania Lastoria