Sì, è ufficialmente pandemia

Sì, è ufficialmente pandemia.

Ma noi siamo stati sulla luna, abbiamo l’energia nucleare, i trapianti d’organo, i computer, internet, le stazioni spaziali. Com’e possibile che ci sia una… pestilenza, come nel medioevo?

È possibile, ma purtroppo dimentichiamo troppo spesso la storia. Le epidemie non appartengono soltanto all’antichità. Per esempio, l’ultima epidemia di peste in occidente (proprio peste, come quella del Decameron e dei Promessi Sposi) è stata registrata a Los Angeles nel 1924. C’era già l’industria del cinema, in quella città; circolavano le automobili. Ma la città è stata colpita dalla “peste nera”. Il Los Angeles Times l’anno scorso ha lanciato l’allarme che la peste possa tornare a causa del cambiamento climatico, che favorisce il diffondersi dei parassiti che la portano. Il problema è comune a tutte le grandi città con numerose colonie di ratti, come anche Parigi e Roma. Oggi l’OMS riporta dai 1000 ai 3000 casi di peste ogni anno, distribuiti soprattutto tra Africa, Asia e Sudamerica: pestilenze di cui poco si parla, perché lontane. Alla fine dell’ottocento, in epoca di ferrovie e rivoluzione industriale, ci fu una grave epidemia di peste in oriente: nel 1894 il dottor Yersin identificò il batterio responsabile ad Hong Kong (lo chiamò Pasteurella in onore di Pasteur, ma oggi si chiama Yersinia in suo onore). Poi, nel novecento, abbiamo avuto la pandemia “spagnola” che fece milioni di morti: forse cento, per lo meno cinquanta milioni. Si dovrebbe chiamarla “americana”, perché nacque negli Stati Uniti, e da lì raggiunse l’Europa, con le truppe: un secolo fa furono loro gli untori. Poi l’asiatica, la SARS, la MARS e qualche altra virosi minore. Ebola ha causato oltre 12.000 morti e continua ad imperversare. E quante vittime ha mietuto nel mondo l’AIDS?

Quindi togliamoci dalla testa che l’umanità sia immune da epidemie e pestilenze.

Non è un invito ad essere fatalisti e ad arrenderci a queste evenienze. È, però, un invito ad essere umili. A prendere coscienza del nostro posto nel mondo: l’umanità è una specie tra tante, convive con virus, batteri, piante e animali in uno stesso pianeta, che è la casa comune di tutti gli uomini, ma non solo degli uomini.

La situazione è analoga a quella dei terremoti. I terremoti sono inevitabili ed imprevedibili. Vengono da qualcosa più grande di noi: dalla vita stessa del pianeta di cui siamo ospiti, assieme alle montagne, ai mari, alle foreste, all’atmosfera.

Ma la peculiarità della nostra specie è di avere una scelta. Noi non possiamo in realtà scegliere che i terremoti ci siano oppure no. Possiamo, però, scegliere che ci facciano o no molto male: possiamo scegliere se costruire case che resistano al sisma o case che crollino.

Similmente, non possiamo scegliere che i virus non esistano, ma possiamo scegliere quanto danno ci possano fare.

Questa è la nostra unica, importante chance.

Possiamo scegliere di avere un buon sistema sanitario, pensato non per risparmiare, ma per affrontare anche imprevisti eventi di massa (mass casualties, nel linguaggio degli addetti ai lavori, cui si dovrebbe pensare di più, in un’epoca di terrorismo) come questa pandemia. Di avere amministratori e politici che pensino al futuro di tutti e non al proprio tornaconto immediato. Può aiutarci essere disciplinati e rispettarci gli uni con gli altri, applicando le necessarie misure di profilassi. Può aiutarci la solidarietà, che qualche volta diamo ed altre volte, come oggi, riceviamo.

Guardando il problema da un punto di vista più ampio, possiamo scegliere di rispettare l’ambiente e la natura, perché questa può proteggerci, ma anche metterci in pericolo, dipende da come ci comportiamo. È già successo che animali innocui siano diventati veicolo di inedite contaminazioni: o abbiamo dimenticato i prioni della “mucca pazza”? Così altri virus fanno il salto di specie, se vengono meno le barriere naturali; ma non ne sarebbero capaci senza il fattivo aiuto dei nostri comportamenti.

C’è anche l’ipotesi inquietante che alcuni virus, come l’Ebola e il COVID 19, siano stati fabbricati in laboratorio per scopi fantapolitici. Girano molte notizie sul web e sui media sociali a questo riguardo. Ma non solo. Anche altre ipotesi cervellotiche: che il COVID sia innocuo, che non dia immunità, che le mascherine non servano, che l’allarme sia solo una montatura orchestrata a fini politico-economici.

Ci sono filmati, interviste, notizie in cui qualcosa di vero è abilmente mescolata a molte falsità per renderle credibili. Sembra quasi che ci sia una congiura della menzogna, architettata per confonderci le idee. Sono tutte notizie e ipotesi che si rivelano infondate ad un esame attento: ma ben orchestrate per ingannare. Sembrano senza scopo, ma girano e portano altra infezione, a livello mentale e sociale. Si possono verificare e smontare, ma non tutti hanno i mezzi per farlo, e molti ci credono.

Come nella peste manzoniana, il desiderio di trovare l’untore è irresistibile e ci impedisce di vedere le vere cause del fenomeno. Il capro espiatorio è molto più comodo, e consente di sfuggire alle responsabilità.

Perciò le teorie complottiste sono dannose: mantengono l’illusione che le epidemie non siano un fatto naturale, che la nostra civiltà ne sia immune o, almeno, che lo sarebbe se non ci fosse un complotto politico-militare o finanziario. Quindi, che l’umanità non debba attrezzarsi per affrontare e magari prevenire questi eventi; che non serva rivedere il nostro rapporto con l’ambiente, stare più attenti a come lo modifichiamo.

Ma la peste non era provocata dagli untori e perciò, mentre si dava la caccia agli untori, la yersinia continuava a fare stragi. Così oggi, se si dà la caccia agli untori, non ci si prepara per affrontare le epidemie, a contenerle e a curarle; magari a prevenirle. Se si gioca con la disinformazione, non si correggono gli atteggiamenti realmente dannosi.

Perché nonostante le stazioni spaziali e tutta la nostra tecnologia, siamo vulnerabili come 2000 anni fa.

Per finire, vorrei ricordare un’altra storia. Nel 1854 Londra fu flagellata dal colera, un’epidemia molto peggiore del piccolo focolaio italiano del ‘73. La mortalità fu mediamente del 60% tra i ricoverati negli ospedali londinesi: d’altronde, non c’erano antibiotici né vaccini. Ma fu soltanto del 16% all’Ospedale Omeopatico della città. Anche per questo, il sistema sanitario inglese ha incluso le cure omeopatiche fin dalla sua nascita nel 1948, e il direttore dell’Ospedale Omeopatico è dal 2001 medico personale di Elisabetta II.

Questi i fatti su cui è opportuna una seria riflessione.

di Cesare Pirozzi