La lotta per cambiare il mondo secondo Angela Davis
Osservando il breve filmato di un’intervista del 1972, si capisce perché Angela Davis sia diventata un’icona della lotta antirazzista. L’immagine, la determinazione, l’intelligenza. Davis è stata immortalata nel documentario del 2011 The black power mixtape e alcuni spezzoni dell’intervista sono stati diffusi sui social network dopo che George Floyd, un nero di 46 anni, è stato ucciso da un poliziotto a Minneapolis, scatenando proteste in tutto il mondo. Oggi il suo libro Donne, razza e classe (Alegre 2018), pubblicato nel 1981, è considerato una lettura essenziale per chiunque voglia capire cos’è l’attivismo antirazzista.
Angela Davis ha 76 anni. È collegata via Zoom dal suo ufficio, in California. Le viene chiesto se dopo tutti questi anni ha la sensazione che un cambiamento concreto sia possibile. “Certo, la situazione oggi potrebbe essere diversa”, risponde. “Ma non è scontato”. Davis, comprensibilmente, si mostra prudente. D’altronde nella sua vita ha visto di tutto, dalle rivolte del 1965 a Watts, un quartiere di Los Angeles, alla guerra in Vietnam fino all’invasione dell’Iraq e ai disordini di Ferguson.
Davis, nel complesso, trova incoraggianti le proteste innescate dalla morte di Floyd. Non è la prima volta che gli Stati Uniti assistono alla nascita di movimenti su larga scala, ma Davis pensa che oggi qualcosa sia cambiato: i bianchi stanno cominciando a capire.
“Non avevamo mai visto manifestazioni così prolungate, partecipate e diversificate. Penso che questo stia dando molta speranza alla gente. In passato, quando dicevamo Black lives matter (le vite dei neri sono importanti), c’era sempre qualcuno che diceva: ‘Ma non sarebbe meglio dire che tutte le vite sono importanti?’. Ora finalmente hanno capito. Si sono resi conto del fatto che fino a quando i neri verranno trattati in questo modo, fino a quando la violenza del razzismo resterà inalterata, nessuno sarà al sicuro”.
Oggi, a cinquant’anni dall’inizio della sua lotta, Davis sembra improvvisamente diventata il simbolo della giustizia sociale, ma ci tiene a riconoscere i meriti della nuova generazione di attivisti e pensatori politici.
“Osservo questi ragazzi, così intelligenti e capaci di apprendere dal passato per creare nuove idee. Imparo molto anche da persone che hanno cinquant’anni meno di me. È emozionante, mi spinge a continuare la lotta. Anche se la portata della reazione è sicuramente nuova, la causa non lo è, e penso sia importante sottolinearlo”.
Quando le si chiede che consiglio darebbe al movimento Black lives matter, risponde che dal suo punto di vista la cosa più importante è cominciare a esprimere idee su come far evolvere il movimento. Naturalmente si tratta di un aspetto difficile da analizzare nel fervore di una protesta che si sta diffondendo in tutto il mondo. Tuttavia, per Davis è importante capire che l’incendio di un commissariato a Minneapolis o la rimozione della statua di Edward Colston a Bristol non sono la risposta definitiva. A prescindere da quello che pensano le persone, questi gesti non porteranno un cambiamento reale. Ciò che conta è l’organizzazione, il lavoro. Bisogna continuare a lavorare, ad organizzarsi per combattere il razzismo, a trovare nuovi modi per trasformare le nostre società. Solo così si può fare la differenza.
Dopo essere uscita dal carcere Davis ha fatto di tutto per evitare che il contributo delle donne alla causa per i diritti civili fosse ignorato e dopo tutto ciò che ha passato compresi ben diciotto mesi in carcere, oggi dice di essere felice di essere ancora viva. Perché è testimone di tutto ciò che sta accadendo, anche per conto di quelli che non ce l’hanno fatta.
Davis sa che ha rischiato di essere tra quelli che non ce l’hanno fatta. All’epoca dell’intervista con il giornalista svedese, nel 1972, era ancora in carcere con l’accusa di omicidio e rischiava la pena di morte. Molti esponenti attivisti sono morti in modo violento: chi ucciso durante una retata della polizia e chi assassinato.
“So che avrei potuto fare la stessa fine”, ammette Davis. “Potrei essere in prigione, avrei potuto essere condannata all’ergastolo. A salvarmi la vita è stato l’impegno di molte persone in tutto il mondo. In un certo senso il mio lavoro si è sempre basato sulla consapevolezza che sono qui solo perché molte persone hanno fatto lo stesso lavoro per difendermi. Continuerò a fare quello che faccio, fino al giorno in cui morirò”.
Durante le sue conferenze Davis racconta spesso di quando, da bambina, chiedeva alla madre perché non potesse andare al parco giochi o alle librerie di Birmingham. La madre, che era un’attivista, le spiegava come funzionava la segregazione, ma non si fermava lì. “Ci ripeteva continuamente che le cose sarebbero cambiate e che noi avremmo fatto parte del cambiamento. Così ho imparato fin da piccola a vivere in un contesto di segregazione razziale, ma anche, contemporaneamente, a immaginare un nuovo mondo, con la certezza che la situazione non sarebbe rimasta la stessa per sempre. Mia madre ce lo diceva sempre: “Non è così che dovrebbero andare le cose, non è così che dovrebbe essere il mondo.”
E queste parole sono state fondamentali per la mia formazione e le battaglie che certo non ho affrontato da sola. Oggi più che mai ho fiducia nel cambiamento grazie alle nuove generazioni di attivisti che lottano per i propri diritti e la propria libertà. Devo a loro più di quanto loro debbano a me.
di Stefania Lastoria