Le donne immigrate e l’emancipazione vista come un miraggio
“Molti anni fa, un ragazzo genovese di nome Marco, tredici anni, figlio d’operaio, andò da Genova a Buenos Aires solo per rivedere sua madre. Una donna partita due anni prima per mettersi a servizio di qualche ricca casa e poter guadagnare bene, con la speranza di ritornare in patria in pochi anni e un bel gruzzoletto di denaro per far stare bene la sua famiglia. Un viaggio di coraggio e determinazione per il bene dei propri figli”.
Questa storia, forse molti ricorderanno, narra di uno dei più commoventi racconti del libro “Cuore” – Dagli Appennini alle Ande di Edmondo De Amicis pubblicato nel 1886.
Così già da allora, attraverso un’opera letteraria, si testimonia come la migrazione femminile è assai più antica di quanto non si pensi, sebbene la storiografia l’abbia volutamente trascurata, vuoi perché le donne erano in buona misura occupate nelle case private, vuoi perché non erano di utilità per l’esercito, per cui i loro movimenti non destavano l’interesse dei governi.
Invece ormai da alcuni decenni, studiosi e agenzie internazionali, parlano di femminilizzazione per descrivere uno dei tratti distintivi della mobilità umana dell’epoca contemporanea in quanto il peso delle donne nei flussi migratori e il ruolo economicamente attivo le rende per le loro famiglie delle vere procacciatrici di reddito, indispensabili per il sostegno e la garanzia di una vita dignitosa per i loro figli.
Tutto questo da una parte riflette il dramma della femminilizzazione della povertà ma dall’altra parte ci racconta di una profonda trasformazione della condizione femminile e dei regimi di genere.
In Italia la transizione migratoria iniziò prevalentemente negli anni 70, con l’arrivo di donne straniere che trovavano lavoro e alloggio presso le case borghesi delle grandi città. Le cosiddette colf, una sorta di cameriera ma con una matrice “familiare” tanto da essere considerata spesso “una di famiglia”, come appartenenza stabile ma discreta nel ruolo domestico, pur continuando a distinguere l’appartenenza etnica come posto di ciascuno nella società.
I percorsi migratori femminili riflettono un sistema di interdipendenze globali che lega le famiglie dei paesi a forte pressione migratoria, coi loro bisogni di sopravvivenza e sviluppo, a quelle del “Nord globale”, coi loro bisogni di cura e sostegno. Non v’è allora da stupirsi se, a decenni dall’avvio della vicenda migratoria italiana, le famiglie sono ancora il principale datore di lavoro delle immigrate: il comparto assorbe oltre quattro straniere su dieci e si caratterizza per tutte le criticità di un lavoro che continua a non essere considerato esattamente come tale, a partire dall’impressionante diffusione dell’occupazione irregolare (stimata pari al 60% degli addetti).
Pur tuttavia, la migrazione femminile ha anche altri volti, che rispecchiano la tradizionale configurazione del ciclo migratorio, in cui i primi a migrare sono gli uomini. Parliamo del volto delle donne arrivate attraverso il ricongiungimento familiare, che da anni rappresenta la principale ragione d’ingresso in Italia.
E tuttavia, inutile negarlo, gli episodi che ci parlano di regimi patriarcali sollecitano ad interrogarsi su una realtà composita e ancora in parte poco conosciuta a cui noi italiani o europei in genere, siamo poco abituati ed inclini alla comprensione di quelle che sono culture e tradizioni totalmente diverse dal nostro pensiero di “libertà”.
La realtà, ad esempio, delle migliaia di donne originarie da paesi come Egitto, India, Pakistan, Bangladesh che si ritrovano, per scelta o per forza, a volte giovanissime almeno in base ai “nostri” standard, a svolgere il ruolo di moglie e casalinga: il tasso di inattività femminile, in questi gruppi, supera l’80 o addirittura il 90%. Si tratta di situazioni che percepiamo distanti dal principio dell’equità di genere, se non addirittura come una minaccia alla parità faticosamente affermata.
I molteplici fattori che spiegano il tasso di inattività femminile sono tutti pertinenti con la situazione di molte donne straniere: il livello di istruzione (tanto più basso, quanto più probabile l’uscita dal mercato alla nascita del primo figlio, se non il mancato ingresso), le basse retribuzioni (che pesano sulle scelte di allocazione tra lavoro familiare e lavoro retribuito), le capacità di negoziazione col partner (che possiamo ipotizzare meno presenti nelle donne arrivate per ricongiungimento familiare). Com’è noto, l’esclusione protratta dal mercato del lavoro rende probabile restarne per sempre ai margini, per tutti ma in particolar modo per le immigrate, non per caso individuate come target prioritario delle politiche europee di promozione dell’occupabilità.
Sarebbe opportuno dunque agire al più presto affinché molte giovani che vivono in Italia e che qui fanno crescere i loro figli, non siano escluse perennemente da questo fondamentale veicolo di emancipazione economica e partecipazione sociale. E’ il solo modo che hanno loro e che abbiamo noi per rendere quel divario “culturale” sempre meno profondo fino ad annullarlo completamente. Un sogno forse, una speranza per la quale però, vale sempre la pena battersi. La realizzazione e l’indipendenza economica di ogni singola donna rappresenta anche la realizzazione di tutte le donne che sostengono questo paese così come molti altri paesi del mondo occidentale.
di Stefania Lastoria