Le contraddizioni del capitale e la politica da ricostruire

La formazione del Governo Draghi, le vicende che l’hanno favorita e accompagnata, la sua accettazione acritica da parte delle forze politiche (all’infuori della destra neofascista e di qualche esponente, in numero inferiore alle dita di una mano, di Sinistra italiana) e della totalità della stampa nazionale hanno aperto in quel che resta della sinistra un confronto sulle prospettive che si aprono. Le domande sono chiare: dove stiamo andando? E, ancora, che fare? A questo dibattito, su cui stanno arrivando molti e appassionati contributi, Volere la Luna dedicherà una particolare attenzione.

La crisi di governo apertasi in concomitanza con l’avvio faticoso e incerto della campagna di vaccinazione contro il Covid è stata vissuta da molti cittadini come l’ennesima dimostrazione della pochezza della classe politica italiana, rivelatasi ancora una volta priva di talento e senso di responsabilità. Pur condividendo questo giudizio senza appello, troviamo preoccupante che anche tra il popolo di sinistra (ammesso che il termine abbia ancora un senso) la crisi sia stata interpretata in termini personalistici quando non psicopatologici: il protagonismo di Renzi, le sue incompatibilità caratteriali con Conte e così via. Bastava andare a riguardarsi il “network” del novello Borgia (tra massoneria e poteri finanziari transnazionali, senza andar troppo per il sottile, come ci ha ricordato con il suo viaggio in Arabia Saudita), per capire che ben altra era la posta in palio. Neppure ci sembra sufficiente stigmatizzare la nomina di Draghi come la vittoria delle élite e della tecnocrazia sulla politica: una tesi che, sin dal lessico, rivela lo smottamento non solo organizzativo ma anche intellettuale della sinistra, il suo nanismo di fronte a fenomeni che essa sembra aver rinunciato a interpretare nella loro inesorabile complessità – perché nell’era del populismo (vedremo se davvero ridimensionato) la complessità è diventata una colpa, qualcosa di cui vergognarsi perché inadatta alla logica dei “social”. L’analisi di classe viene così demandata ai pochi economisti marxisti rimasti – un fenomeno “di nicchia” – riproducendo di conseguenza, anche tra le fila della sinistra radicale, la primazia di questa particolare categoria di esperti, mentre i cultori delle scienze “morbide” (politologi, sociologi, storici ecc.) si accontentano del ruolo di prefiche.

Non sarebbe più utile chiarire di quali élite e quale politica stiamo parlando? Se per politica intendiamo l’espressione istituzionale della dialettica tra organizzazioni di massa, allora dobbiamo avere il coraggio di ammettere che essa è morta non con il governo Draghi, ma da almeno quarant’anni, come ha ben spiegato Wolfgang Streeck in Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico (2013). Il “matrimonio” tra capitalismo e democrazia, lungi dall’essere naturale, è infatti entrato in crisi irreversibile a metà degli anni Settanta, quando il capitale, di fronte al calo dei profitti (anche per effetto della conflittualità sociale), ha disconosciuto il compromesso fordista. Il risultato che abbiamo sotto gli occhi è un processo di «de-democratizzazione del capitalismo attraverso la de-economizzazione della democrazia» che fa leva prima sull’inflazione, poi sull’indebitamento (quello pubblico e a seguire quello privato). Pur incisiva, l’analisi di Streeck rimane tuttavia prigioniera (come molte letture della crisi di governo che circolano in questi giorni) di una visione meccanicistica del rapporto tra economia e politica (per non dire: struttura e sovrastruttura), con entrambi i poli concepiti come entità monolitiche. Baloccarsi con lo slogan dello Stato comitato d’affari della borghesia (o, attualizzando, del neoliberalismo) non aiuta a capire i processi in corso e – lo diciamo senza alcun ottimismo della volontà – le tensioni che essi inevitabilmente produrranno.

Una griglia interpretativa per orientarsi nella complessità, appunto, della situazione attuale la offre l’opera di Nicos Poulantzas (1936-1979), capace di cogliere, già a metà degli anni Settanta, i germi del cambio di paradigma che si stava preparando. Il filosofo militante greco individuava infatti la funzione principale dello Stato nell’organizzazione dell’interesse politico a lungo termine del blocco al potere, attraverso la fusione ‒ in un rapporto di unità conflittuale ‒ di frazioni diverse della classe dominante, sotto l’egemonia di una di esse. Un obiettivo, quello dell’unità politica delle classi dominanti, che può essere perseguito solo a condizione che lo Stato mantenga una sua autonomia relativa rispetto a tali frazioni, accogliendo ad esempio rivendicazioni delle classi dominate, se ciò serve ad assicurare la perpetuazione del capitalismo.

Il governo Draghi accorpa (ci si perdoni lo schematismo): i rappresentanti del capitale “modernizzatore” (quello europeista, finanziario e social-liberista: i “tecnici”, Renzi, ma anche il PD, che esce (temporaneamente?) vincitore), i cavalieri del capitalismo predatorio e populista (Forza Italia e Lega, divisi su molti temi ma entrambi ripulitisi per l’occasione: quella di partecipare al banchetto dei fondi europei) nonché il magmatico retroterra sociale dei 5 stelle, che comprende anche (piaccia o meno) una non trascurabile quota di “eccedenze del mercato” (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2021/02/10/lorsignori-e-il-timore-della-mela-marcia/). Più che deplorare l’arroganza delle élite o piangere oggi una politica che è morta da tempo, occorre interrogarsi su queste contraddizioni, quelle interne al capitale, a livello intra e transnazionale, e quelle tra classi dominanti e classi subordinate. Per continuare, se non a sperare, almeno a comprendere e ad attrezzarsi.

Dopo aver ricordato che «in ogni Stato capitalistico, persino nel più democratico, ci sono in embrione, in potenza, elementi che possono sfociare in un certo tipo di fascismo», Poulantzas annunciava (quasi mezzo secolo fa) il declino della democrazia rappresentativa, con il trasferimento del potere dagli organi legislativi a quelli esecutivi, il rafforzamento degli apparati repressivi, lo spostamento della funzione di legittimazione del sistema dall’apparato educativo ai media e dai partiti all’amministrazione pubblica. Quest’ultima, scriveva, diventa il vero partito delle classi dominanti, giacché si rivolge direttamente alle categorie sociali senza più ricorrere ai mediatori tradizionali (i partiti, appunto): precisamente ciò che oggi vediamo fare al governo dei “tecnici”, in ambito nazionale, e alla BCE, a livello continentale. I poteri transnazionali tuttavia continuano ad aver bisogno degli Stati nazionali, il cui vassallaggio garantisce ‒ con misure pagate dalla collettività ‒ quel supporto al blocco di potere che la finanza non è in grado di realizzare tramite il mercato (come ben si è visto durante la pandemia).

Di fronte a questo mefitico quadro (Non sarà un pranzo di gala, ammonisce il titolo dell’ultimo libro di Emiliano Brancaccio), ci si deve chiedere se sia ancora attuale la feconda tensione auspicata da Poulantzas: da un lato «una lotta interna allo Stato […], di resistenza, una lotta di accentuazione delle contraddizioni interne dello Stato», dall’altro lato «una lotta parallela, una lotta dall’esterno delle istituzioni e degli apparati, che dia vita a tutta una serie di dispositivi, di settori, di poteri popolari alla base, di strutture di democrazia diretta». Può, per esempio, una società (o un reticolo di microcomunità) fondata sul mutualismo e l’autorganizzazione fronteggiare sfide globali come i cambiamenti climatici e le pandemie? Su questo il dibattito socialista odierno si divide, tra tentazioni neoleniniste (Andreas Malm) e mitizzazione di preziose esperienze di autogoverno, pur difficilmente esportabili (Rojava). Ma certo non è di modelli prêt-à-porter che abbiamo bisogno: dovremmo invece reimparare a collegare i piccoli ai grandi nodi intessendo nuove trame di rapporti in questa epoca che li dissolve in nome di un individualismo comodo, forse, per i più ricchi. Cos’altro è una politica che non si limiti a scegliere il meno peggio tra alternative illusorie se non costruzione e ricostruzione di un diverso legame sociale? Del resto, non si creano nuove pratiche di autogoverno, non si diffonde il principio dell’autorganizzazione, senza una visione dell’alternativa al capitalismo; e per contro non si elabora un modello di società giusta senza un ancoraggio a quelle pratiche, frutto di aggregazioni autentiche (alcune esistono già ora e sono più diffuse di quanto non si creda). In basso, il desiderio di politica non è irreversibilmente spento: è cambiato; tra le giovani generazioni, poi, la politica non è del tutto assente: è mutata. Noi avremo soltanto illusioni ottiche, se rimaniamo con gli occhi fissi esclusivamente alle dinamiche della politica tradizionale (partiti, leader, formule ecc.), in nome di un realismo mal digerito.

La definizione della realtà, obiettivamente, è un campo di battaglia: i tempi cupi in cui viviamo ci chiedono di frenare la catastrofe, con ogni mezzo necessario, e di formulare nel contempo un ideale alternativo di convivenza. Per far ciò, la politica non può essere rappresentata ancora come un ambito autonomo, mero riflesso dell’economico e dunque separato dal “popolare”: non è «l’alto» contrapposto al «basso», o viceversa, bensì la sfera sociale stessa che definisce e continuamente ridefinisce i principi e le pratiche della convivenza civile. La strada sarà lunga, forse lunghissima: bisogna iniziare, qui e ora, magari recuperando lo spirito della Prima Internazionale, che con il suo pluralismo politico, organizzativo ed “esistenziale” ha saputo partire dal locale per comporre una visione globale unitaria, in nome della lotta al capitalismo.

di: e

 

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