L’allarmante sincronicità del 9 maggio

Peppino Impastato, giovane di sinistra, giornalista e attivista antimafia fu ucciso barbaramente un 9 maggio di tanti anni fa. Aldo Moro, uomo politico fautore di un’alleanza con le forze di sinistra, fu ucciso dai terroristi lo stesso 9 maggio, appena in tempo per impedirgli di realizzare il suo innovativo disegno politico. Il 9 maggio di quest’anno è stato beatificato Rosario Angelo Livatino, magistrato scomodo per la sua inchiesta sulla “tangentopoli siciliana”, ucciso dalla “stidda”.

Per un caso fortuito e imprevedibile la stessa data caratterizza tre episodi diversi, accomunati dall’essere tutti e tre emblematici degli ultimi cinquant’anni della nostra storia. Una coincidenza così precisa (Jung l’avrebbe chiamata “sincronicità”) da essere significativa. In apparenza non c’è un nesso materiale tra questi episodi, ma una correlazione ideale, quasi che il fato, o la provvidenza, avessero voluto collocarli nella stessa data per attirare la nostra attenzione e suggerirci di guardare più a fondo, superando i limiti della mera cronaca giudiziaria.

Che cosa vuol dunque dire questa sincronicità?

Sembra quasi voler dire che mafia, politica (ma, si badi, solo una certa politica) ed economia (quel tipo di economia che si arricchisce a danno della collettività, corrompendo la vita civile) sono strettamente intrecciate. D’altronde esse indicano con chiarezza di avere in comune gli stessi nemici: i politici capaci di apportare cambiamenti incisivi, i magistrati onesti e capaci, chi denuncia e addita all’opinione pubblica le collusioni tra colletti bianchi e criminalità mafiosa.

L’idea di una tale sinergia non è certamente nuova; fu anzi evidente fin dall’inizio della storia repubblicana con la strage di Portella della Ginestra: anche in quel 1° maggio del 1947 (il primo 1° maggio di festa del lavoro dopo molti anni di interruzione) l’abbraccio tra criminalità organizzata, economia e politica era sotto gli occhi di tutti.

Più di recente Vincenzo Ceruso, allievo di padre Pino Puglisi, basandosi sulle carte processuali, ha indagato e messo in luce il ruolo della mafia nella storia del terrorismo eversivo, a partire dagli attentati di Piazza della Loggia e di Piazza Fontana. Lo ha fatto in un libro del 2018 dal titolo inquietante (“La Mafia Nera”) e dal sottotitolo ancor più allarmante ed esplicito: “I depistaggi tra eversione neofascista e cosa nostra: storia di un’Italia oscura”.

I depistaggi hanno sempre interferito pesantemente con le indagini sulla mafia come sull’eversione e, dal momento che funzionano, in entrambi i casi le revisioni dei processi si susseguono fino allo sfinimento. Per fare un esempio recente, per la strage di via D’Amelio ci son voluti quattro processi e l’ultima sentenza – “Borsellino quater” – parla di “uno dei più gravi depistaggi” della nostra storia. Ma il discorso – purtroppo – vale per quasi tutti i casi di delitti eccellenti e di stragi eversive.

Dunque, non sono soltanto gli omicidi e le stragi ad accomunare mafia ed eversione, ma anche la capacità di confondere le acque, far sparire documenti, trovare falsi pentiti e false prove. Ma per far questo serve l’aiuto di uomini delle istituzioni. Nel 1950 un ufficiale dei carabinieri dichiarò che Salvatore Giuliano (autore della strage di Portella) era stato ucciso in un conflitto a fuoco con loro, allontanando così i sospetti dal vero colpevole e dalle vere ragioni di quell’omicidio; oggi i protagonisti sono meno ingenui ed è più difficile individuare chi porta via una borsa o un’agenda e perché si dà credito a un falso pentito.

La vulgata corrente vuole che i responsabili siano “pezzi deviati” di un qualche apparato statale. È una definizione consolatoria, direi buonista, che li considera semplici schegge impazzite, deviazioni isolate e imprevedibili.

Invece no, non si tratta di casi isolati, di semplici deviazioni da una norma preponderante. Il depistaggio, la complicità, le inquietanti coincidenze accomunano tutte – o quasi – le vicende del terrorismo mafioso ed eversivo, dall’immediato dopoguerra ai nostri giorni, da Portella della Ginestra a via d’Amelio, da piazza Fontana alla stazione di Bologna. Sembra quasi che il depistaggio sia la norma, non un’isolata eccezione.

Da qualche tempo si parla di stato profondo (deep state) con riferimento al fatto che una parte invisibile – o sommersa – dei pubblici apparati (dalle forze armate alla burocrazia alle banche centrali) sembra sottrarsi al controllo democratico dei cittadini. È una teoria cara ai complottisti, che sospettano sempre la presenza di un potere occulto e incontrollabile dietro ai più importanti fatti politici, economici o giudiziari. Sebbene la visione complottista mi sembri eccessiva, funzionale ad un atteggiamento qualunquista e rinunciatario nei confronti della politica, tuttavia bisogna riconoscere che contiene una dose di verità.

Voglio dire che i responsabili dei depistaggi, delle omissioni, dell’occultamento di prove, sono perfettamente inseriti nel tessuto dell’effettiva governance della cosa pubblica. Sfuggono, la maggior parte delle volte, al controllo ufficiale degli organi democratici, ma sono in perfetta connessione con almeno una parte di chi ha responsabilità di governo o di supervisione. Non sono schegge deviate, ma componenti del tutto integrate; non sono, per fortuna, tutto lo Stato, ma ne fanno parte a pieno titolo.

Già di per sé il fenomeno sarebbe abbastanza grave, ma ancor più grave ci appare se consideriamo il colpevole coinvolgimento di queste persone in spietati fatti di sangue, ciò che rivela una totale indifferenza nei confronti della sacralità della vita e del dolore dei sopravvissuti: una sconcertante mancanza di empatia nei confronti degli altri esseri umani. È come se un nucleo di barbarie primitiva ed efferata sopravvivesse perfettamente integrato all’interno della nostra civiltà, dissimulato nelle stesse istituzioni, un nucleo con una sua cultura disumana, con valori di riferimento non dissimili da quelli della peggior tradizione nazi-fascista.

La “mafia nera” – come la definisce Ceruso – è davvero una preoccupante realtà, che non sarà facile sconfiggere.

di Cesare Pirozzi     

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