Il Limbo dei migranti climatici

<<Riconosciamo gli  impatti sproporzionati del cambiamento climatico, della perdita di biodiversità e del degrado ambientale sulle comunità più vulnerabili, sulle persone che vivono in povertà e su coloro che stanno già affrontando disuguaglianze e discriminazioni, comprese donne e ragazze, popoli  indigeni e persone con disabilità e altri gruppi emarginati>> si legge nel documento finale diramato al termine del G7 in Cornovaglia.

<<Riconosciamo con grave preoccupazione che le crisi senza precedenti e interdipendenti del cambiamento climatico rappresentano una minaccia esistenziale per la natura, le persone, la prosperità e la sicurezza>> scrivono ancora i 7 Grandi della Terra che hanno incentrato il vertice 2021 sui cambiamenti climatici e la lotta alla pandemia.

Il verbo “riconoscere”, usato ripetutamente, significherà anche riconoscere l’esistenza delle migrazioni causate dal degrado ambientale e dunque “riconoscere” lo status di  rifugiato a chi lascia la propria terra per ragioni legate direttamente o indirettamente ai rapidi cambiamenti climatici?

Secondo il rapporto del Norwegian Refugee Council circa 30 milioni di persone sono costrette, ogni anno, a lasciare le loro case a causa di eventi  meteorologici  estremi, catastrofi naturali, la perdita di biodiversità e disastri ambientali provocati dall’uomo. L’ultimo evento, in ordine di tempo, è l’eruzione del vulcano Nyiragongo, nella Repubblica democratica del Congodove il numero degli sfollati, secondo l’Unicef, si aggira intorno alle 400 mila persone. Molti rimarranno sfollati interni per mancanza di risorse fisiche o economiche, altri migreranno superando i confini. Una delle peggiori crisi umanitarie, eppure il resto del mondo sembra ignorarla.  Stando ai dati prodotti dal NRC, il numero dei migranti climatici è tre volte superiore rispetto alle persone che scappano da guerre e proiettili anche se spesso i fattori che spingono a migrare sono fra loro strettamente connessi.

La definizione di “rifugiato climatico” è considerata da molte istituzioni internazionali , compreso  l’UNHCR, una definizione impropria per il fatto di non trovare alcun riferimento normativo nel diritto internazionale.

 Lo status di rifugiato è infatti regolato  dalla Convenzione di Ginevra del 1951 che non contiene nessuna tutela per chi fugge da disastri ambientali o calamità naturali mentre accorda protezione internazionale a coloro che hanno attraversato la frontiera internazionale <<a causa del fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale>>

I migranti climatici, una volta raggiunta la nuova destinazione, diventano invisibili. Finiscono in un limbo, sull’orlo estremo di un vuoto normativo, senza  protezione e senza  diritti.

Se le grandi potenze passeranno dalle parole  ai fatti, allora il verbo riconoscere assumerà il significato di accorgersi, rendersi conto dell’urgenza di una giustizia ambientale, della necessità di dare piena tutela giuridica  ai migranti climatici attraverso il riconoscimento dello status di rifugiato ambientale.

di Nicoletta Iommi

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