Te vulesse pittà

“O triate” è o triate. Peppe Barra è Peppe Barra. Non esiste “o triate” senza Peppe Barra perché Peppe Barra è se stesso, quando è pulcinella o quando è il borghese napoletano. Non c’è finzione. Non c’è recita. La grandezza di un uomo capace di fondersi con il palcoscenico per divertire un “unicum” con la quarta parete.

Al teatro Parioli di Roma, con la regia di Lamberto Lambertini, va in scena “Non c’è niente da ridere” con Peppe Barra e Lalla Esposito, accompagnati dalle musiche dal vivo dei Giuseppe Colandrea al clarinetto, Agostino Oliviero al violino, Antonio Ottaviano al pianoforte, sulle musiche di Giorgio Mellone.

Uno spettacolo di comica malinconia e poesia, un po’ sciantosa un po’ operetta del secolo scorso, quando nei teatri l’avanspettacolo era qualcosa che nasceva nei vicoli malfamati di una Napoli capace di risorgere ogni giorno dalle sue ceneri. Canzonette e varietà interpretate dalla voce di Lalla Esposito in sintonia con le movenze sinuose di una “bohémienne” per nulla turbata dagli eventi che la imprigionano e nel contempo la liberano: come è bella la libertà.

Peppe Barra è il lungo silenzio napoletano, dove esprime la sua faccia con la sua faccia, una medaglia senza rovescio, in grado di esprimere nei monologhi, pezzi di pura bravura, la sua forza vitale che avvolge il pubblico e lo spinge, con naturalezza a continui applausi. Un teatro di classe, dove il pubblico è dietro le quinte di un palcoscenico scarno ma essenziale e tutto il resto è magia. Un sussurro di entusiasmo dialettale, di non facile comprensione grammaticale, ma di una semplicità interpretativa che trasforma lo spettatore in un napoletano doc. Tutto condito con eleganza, garbo e classe, espressa dalla mimica facciale, ed alle movenze corporee di un Peppe Barra in grande forma, capace di dissotterrare emozioni solite ad un pubblico plaudente.

Te vulesse pittà, per dipingere, una realtà difficilmente rappresentabile, ma nella incapacità di “pittare” resa possibile con la forza della volontà di potersi esprimere contro un mondo che nega la realtà stessa di cui è responsabile. Te vulesse pittà, per dipingere una realtà nascosta che tuti vedono ma fingono di non vedere. Te vulesse pittà per farti sentire l’odori dei vicoli che dal mare salgono al Vomero, e le puzze sono simili agli odori che rendono la povera gente degna di essere raccontata. Te vulesse pittà, dice Peppe, con la disperazione di un pulcinella che risorge per esprimere l’amore sofferto, ma senza rimpianti, parte integrante di un modo di amare per essere amati, nel buio e nella luce confusa di un sottoscala. L’umanità più vera, la gente più verace, la passione smisurata, rende tutto più semplice nel mostrare la sincerità affettuosa di una classe sociale che forse non esiste più.

Pulcinella, apre il sipario con una scoreggia sonora, un invito al pubblico ad essere se stessi e non rassegnati ad una vita monotona fatta di apparenze che cancellano l’essenza di essere ciò che si è senza infingimenti. Peppe Barra non è travestito da Pulcinella, è Pulcinella nel sangue che scorre nelle sue vene, fino al midollo. La sua essenza carnale, sonora, fonica e musicale, sono le parole che pronuncia, sono le canzoni che canta, sono il linguaggio “veracemente napoletano” talmente verace da essere lingua madre delle grandi verità che confessa, da vivo, ma soprattutto da morto. Un immenso Peppe Barra, con una grande partner, Lalla Esposito, a sostenere i suoi tempi, per poter dare spazio alla sua voglia di essere se stesso anche con la maschera di Pulcinella.

Claudio Caldarelli

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