Poesia-Phoenix
L’editore Transeuropa, nella collana Nuova Poetica, pubblica la plaquette di Daniela Ripetti-Pacchini dal titolo Poesia-Phoenix. Un’autrice dell’avanguardia poetica di cui abbiamo già scritto per due sue precedenti pubblicazioni. Ricordate nell’ordine cronologico sono: Una giovinezza rubata, grande libro di ricostruzione storico-politica della generazione ribelle della seconda meta del secolo scorso, da noi segnalato nel numero 12 del 30 giugno 2020. Seguito da La poesia e il suo doppio, quasi un’opera omnia della poetessa, di cui potete leggerci nel numero 7 del 17 aprile 2021.
La poesia e il suo doppio, sopra richiamato, svela l’ampia portata dell’architettura d’avanguardia e di giustizia poetica sviluppata da Ripetti-Pacchini. Poesia-Phoenix, la plaquette di questo 2023 è invece una fuggente navicella che si stacca come un frammento dall’astronave madre per correr più veloci acque, come la navicella dell’ingegno di cui Dante alza le vele nel primo canto del Purgatorio. Per attraversare i leopardiani interminati spazi e sovrumani silenzi, tra interiori galassie di coscienze disperse. Questo perché ormai: “Rasoterra è il nostro cielo/ più alto e all’idea di/ guardarlo… all’idea di toccarlo/ già ci perdiamo…” (corsivo mio). E anche Orfeo sotto quel cielo “vaga col suo canto fioco/ barcolla con la sua lira poggiato un po’ di sbieco/ ubriaco… di Aldilà…”.
Dalla sua discesa agli inferi, Orfeo non lo attende più neanche Euridice, la quale, invece, attende la giustizia dovutale. Giustizia per il tentato rapimento, stupro del pastore Aristeo, e dal morso di serpente che la sperse alla vista della vita, non all’esistenza della coscienza. Coscienza che non può cessare di attendere, perché Giustizia è iscritta nel nome stesso di Euridice: Eury-Dikē. L’etimologia è: Eury, vasto, ampio; Dikē, giustizia. Ossia: ampiamente giusta, giustissima. Eury, proprio per il suo significato di vastità, dà nome anche a Europa. Giustizia ed Europa, sono originariamente inseparabili nella nostra civiltà. Per questo la poesia, in quanto patria originariamente sempre in atto sia del mythos, sia del logos, cioè della parola, non può cessare, non può fare a meno di tendere alla giustizia. È una sua necessità, perché la primigenia forma di giustizia è proprio nel dirsi autentico della parola, non nel suo negarsi o contraddirsi. In forma di coscienza, percezione e parola, la giustizia in sé, come Euridice, come la poesia, è la vittima suprema di aggressione, avvelenamento da parte dell’ingiustizia.
L’ingiustizia – nelle molteplici forme e sembianze in cui appare e ci si abbatte contro – è proprio la più drammatica delle esperienze umane. E per lo più l’umano non riesce a trovare nessuna difesa da essa che non siano altre contro tragiche forme d’ingiustizia. A dimensione individuale, collettiva, statuale. Così che è inevitabile, quasi una maledizione destinale, l’andare del mondo fuor dei cardini. E per niente uno scherzo della sorte, per dirla con Amleto e Shakespeare, è che proprio alle grandi poete, poeti, ai veri artisti tocchi l’immane fatica di riportarlo in sesto. O per dirlo con i versi della poeta: “Non riordinerò questo universo/ né spererò nell’azzurro/ ma scenderò nell’azzurro…/ o albore già smagliato…/ colore senza fondo/ più bello/ dell’umano”.
Il titolo della plaquette di Ripetti-Pacchini, Poesia-Phoenix, è preso da quello di un componimento dedicato a un altro grande poeta della sua generazione e suo fratello in poesia, Dario Bellezza. Il titolo del suo libro Morte segreta, vincitore del Premio Viareggio nel 1976, è richiamato nel primo verso: “È nella tua specie di morte… segreta/ che torni Dario nelle mie memorie”. Nello “Scordarsi… ritrovarsi”, infatti, è “come fosse l’infanzia e invece/ sempre sul punto di finire/ rinascere come la Fenice/ ogni volta tra i bidoni d’immondizia/ e le delizie.” (corsivo mio).
Il tipo di opposizione, espressa qui con immondizia/delizia, ricorre in quasi tutti i componimenti di questa raccolta. Dalle prime pagine alle ultime:
infinito morso/ infinito riso;
l’antecedente mi fu conseguente;
quando appresi che io/ non ero io, non ero/ nata…/ per capire di me, decisi/ di dimenticarmi;
io dove trovavo/ la nuova domanda/ che mi sbarazzasse dalle risposte?;
tutto incanta/ tutto incatena;
In estate fatalmente tornò/ con un profilo falso e vero;
tanto gentile sei/ come gentile stilla/ di nero abisso;
che i tanti tu, sono infine uno;
Seri sognatori/… intimi esecutori di mirabili in fieri;
pace/ è incrinare l’ordine/ dello stesso ordinare;
come asfalto astratto/ e tutto deserto/ o tutto splendore/ d’asfalto sfatto;
in lampeggianti bagliori di Nero…;
cherubici girovaghi/ dall’esilio esiliati;
O per la lucente caligine/… o per la santa tenebrìa/… come la festa,/ nelle Ceneri;
le parole che crescono/ Verbo crescente/ decrescono nei sensi/ verba deficiunt;
del celeste male/… morire e far festa;
latte e fiele/… incantamenti amari;
Finché c’è l’infinito c’è una porta/ e resta il desiderio/ sulla soglia…;
sebbene frusta sia la soglia del dire…/ Orfeo continua a cantare… canta e muore/ muore e canta… condannato a non morire. Spiccata la testa dal collo bianco…/ con voce spirante, Orfeo ripete:/ “Eury-dike… Euridice…”;
Tempo vuoto/ benché pieno/… Dolce tempo/ benché asperrimo/… sveli la luna/ gravida di sole eterno;
noi… termini intermedi/ tra l’immensità e il vuoto;
come aculeo che dura eternamente/… che sorga come musica invisibile/ e sveli il Paradiso del frattempo.
Proprio perché “pace/ è incrinare l’ordine/ dello stesso ordinare”, ossia l’ordine come ingiustizia costituita, l’incessante ritorno del verso ripettiano sul contrasto, sull’opposizione alla giustizia, non è un semplice dire, seppure altamente lirico, ma anche atto, verbo performativo, ossia parola che esegue – nello stesso suo dire istantaneo e intrinseco – ciò che dice. Nel fondo più abissale del logos, ossia nel nostro stesso sottosuolo e fondamento, ristabilisce e restituisce la giustizia misconosciuta, ma esistenzialmente, poeticamente a ogni essere dovuta e originariamente data.
Non si possono certo esaurire in un breve articolo tutti gli aspetti – che rifulgono anche in questa sua breve raccolta – dell’intera opera di Daniela Ripetti-Pacchini, ma se abbiamo qui voluto insistere su un tema particolare è perché giustizia innanzitutto andrebbe restituita a questa grande poetessa della nostra avanguardia, i cui versi, quale eco di fondo, “tremano,/ come aggrappati all’aria”. Tanto che una ragazza, un ragazzo di ieri, nelle loro “altissime/ confuse… bestemmie…”, possono ancora profeticamente avvertire in loro: “Un’epoca ci divide./ Tu, mi risplenderai dopo”. Prima di dopo, però, lei già sta splendendo e continua a farlo, semplicemente tessendo poesia non solo in forma di rosa o di cosa, ma di e con l’inseparabile Dike, Giustizia. Metricamente respirando, sussurrando: “Ora mi siedo per un po’/ in questo vecchio luogo/ a spolverare la polvere/ la polvere… e l’Oro…”.
Riccardo Tavani