Seneca: la serenità (parte I)

“Mutano i cieli sotto i quali ti trovi, ma non la tua posizione interiore, poiché sono con te le cose da cui cerchi di fuggire” Lucio Anneo Seneca. La filosofia della serenità traspare in tutte le sue riflessioni sulla ricerca dell’essere. In questa direzione si muove l’opera di Seneca, nell’intento di garantire all’uomo del suo tempo, e di ogni tempo, la tranquillità dellanimo. Quello status che la lingua greca chiamava “euthymía”, la condizione di serenità interiore in cui si è governati dal “buon demone”.

Una condizione di serenità che gli epicurei chiamavano “atarassía”, cioè assenza di turbamento, sottolineando la libertà dalle passioni negative che corrompono l’animo anziché fortificarlo. Ma quello stato di mancanza di dolore derivante dalla capacità di dominare il dolore stesso, esalta il valore della forza d’animo.

Seneca analizza nel profondo l’interiorità umana per capire come gestire la peorompenza delle pulsioni, spesso dannose e controindicate per avere una vera serenità d’animo. L’indagine di Seneca, l’unico vero filosofo o pensatore latino, ha come oggetto di studio i costumi umani e le umane debolezze. Le domande che si pone, sono le stesse che si ponevano i poeti di tutti i tempi, in primis Leopardi: perché l’uomo soffre? Qual è il suo destino? Che senso ha vagare su questa terra? Domande alle quali i poeti non sanno rispondere. Ma Seneca, come tutti i filosofi, cerca una strada da indicare al “pastore errante”. La strada è la riflessione interiore dell’autoanalisi. Una meditazione su se stessi, intensa e profonda.

Nel dialogo filosofico, “De tranquillitate animi”, Seneca si interroga autoanalizzandosi sui perché del dolore e della non serenità d’animo. Un confronto classico tra due interlocutori, un maestro è un discepolo. Il maestro è Seneca, il discepolo il giovane Sereno, che al di là del nome è in crisi profonda. Non sa decidere della sua vita, non sa quale strada prendere. Tutto lo destabilizza. È convinto di sapere il bene, ma agisce contro il bene: “Conosco il meglio, ed al peggior m’appiglio”.

Emanuele Caldarelli