Giorni perfetti di un Viaggio in Giappone

Parliamo di due film. Perfect Days, di Wim Wenders e Viaggio in Giappone, di Élise Girad. Il primo, 123 minuti, ruota attorno alla figura di Hirayama, un semplice pulitore di toilette pubbliche nella città di Tokio, tra i cinquanta e sessant’anni. Il secondo, 95 minuti, attorno a Sidonie Perceval, una scrittrice francese sui cinquanta, che si reca a Tokyo dove incontra per la prima volta il suo editore giapponese Kenzo Mizoguchi. L’occasione è un tour di presentazioni non di un suo nuovo libro, ma di un vecchio titolo rieditati da Kenzo. Già dice molto, però, la differenza tra un umile lavoratore della prima storia e una intellettuale raffinata col suo editore laureato alla Sorbona della seconda. Il cinema dovrebbe trarre storie e significati sull’esistenza più dalla gente comune per la quale anche il biglietto del cinema è un costo.

Anche perché Hirayama vive in una stanza unica con minuscolo bagno, dorme a terra su un futon che tutte le mattine all’alba ripiega in un angolo, insieme all’unica coperta che usa. Si alza, prende una lattina di caffè alla macchinetta in strada, aggancia un vasto mazzo di chiavi alla cintura, sale sul furgone aziendale, zeppo di secchi, spazzoloni, detersivi, spray vari, infila una vecchia audio cassetta nel mangiacassette e affronta la sua toilette city. Proprio a uno di questi vecchi brani musicali allude il titolo del film. Tutti i suoi giorni sono così: perfettamente. Lui è un pulitore molto preciso e scrupoloso. Netta a fondo e lucida tutto.

Alla base della civiltà occidentale c’è anche il poema di Esiodo Le opere e i giorni, VIII sec. a. C. Anche là si tratta di umili uomini della terra, ma le opere, i giorni mutano in base alla diverse condizioni e necessità delle diverse stagioni dell’anno. Per Hirayama, invece, è tutto sempre lo stesso. La pausa pranzo in un piccolo parco con due tramezzini, qualche foto al sole in mezzo alle cime dei rami con una macchinetta Olympus, una doccia al bagno pubblico, un boccone e un bicchiere d’acqua a una bancarella stradale, un libro in prestito in una piccola biblioteca comunale. Lui non ha neanche bisogno di parlare. Non parla con nessuno. Non proferisce parola. Saluta e sorride contento soltanto. Sì, è contento di queste sue perfettamente pulite giornate e toilette. All’inizio sembra di trovarsi dentro un documentario sulle strabilianti e numerosissime toilette di Tokio. D’altronde Wenders alle spalle ha lo splendido documentario Tokio-Ga, del 1985. Poi, quando gli capitano degli imprevisti ed è costretto a parlare, ci accorgiamo che siamo dentro una disarmante esperienza esistenziale e una profondamente trasparente scelta filosofica. Wim Wenders torna finalmente ai livelli alti del cinema narrativo. Gran parte del merito va anche allo sceneggiatore giapponese Takayuki Takuma, importante regista e attore nel suo paese. È riuscito a sintetizzare fino ai limiti del vuoto e del silenzio il volto senza più tempo, orologio e orgoglio, brama di affermazione personale e ricchezza, l’autenticità dell’esistenza. Da augurarsi che Wenders riesca a mantenere tale altezza anche per le opere e i giorni a venire.

Nel suo viaggio tra Tokio, Kyoto e altre storiche città nipponiche, Sidonie, invece, alloggia in non sfarzosi, ma molto agiati e ampi hotel nipponici. Ci fa inoltre immediatamente imbattere in un film troppo celebre per non potevi fare riferimento. A intreccio già avviato, poi, ce ne mette davanti un secondo di film, altrettanto celebre. Il primo è Hiroshima mon amour, di Alain Resnais, 1959. Il secondo, Donna Flor e i suoi due mariti, di Bruno Barreto, 1970. Anche nel primo film ci sono una donna francese e un uomo giapponese che si conoscono per la prima volta. Il tema è quello del passato, della morte devastante rappresentata dalla bomba atomica sganciata sulla città nel 1945. Anche in Viaggio in Giappone, c’è il passato, la morte per devastante per incidente stradale e conseguente collasso esistenziale. Sidonie non pensa, non scrive, non vive più. Morte e passato che si materializzano nella visione fantasmatica del marito di lei, anche in copresenza simultanea con la corporeità dell’editore Kenzo. Come appunto nel film di Barreto, tratto dal romanzo di Jorge Amado, 1966. È un dialogo discreto, a fil di voce, pensieri, paure e sentimenti. E pur con questi due fantasmi cinematografici alle spalle, il film di Girad riesce a staccare un suo spazio e cifra stilistica originale.

Un terzo film giapponese è in sala. Si tratta del Il ragazzo e l’airone, di Hayao Miyazaki. Autore e film già circondato dall’aura del cult, del culto civico-religiose vero e proprio. Tanto che non se ne può che parlare a parte.

 

Riccardo Tavani

 

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