Placido Rizzotto. Dalla parte dei contadini

Latifondo è una di quelle parole che ci sembrano lontane nel tempo. Per la maggior parte di noi, i latifondi rimandano a qualche ormai polveroso libro di scuola, a qualche interrogazione di un’era dimenticata. Noi i latifondi non li abbiamo conosciuti. Noi no, ma i nonni di qualcuno di noi sì.
Secondo un censimento svolto in Sicilia nel 1936, 4/5 dei lavoratori agricoli non possedeva alcuna terra o ne possedeva un pezzo tanto piccolo da non permettergli di vivere in condizioni diverse da quelle di una povertà estrema. Ai contadini non era concesso possedere terreni, i quali restano, ancora negli anni Quaranta, esclusivo appannaggio del signore locale che, in termini più spiccioli, significa della mafia.

Placido Rizzotto voleva combattere questo sistema. Nato a Corleone nel 1914, dopo aver combattuto in Friuli Venezia Giulia prima sul fronte e poi nella Brigata Garibaldi, torna nella città natale, dove inizia l’attività politica e sindacale, divenendo un esponente di spicco del PSI e della CGIL. Eletto Segretario della Camera del Lavoro di Corleone, inizia la sua battaglia a favore del movimento contadino, sostenendo con forza l’approvazione del Decreto Gullo. Decreto in base al quale si imponeva l’obbligo di cedere alle cooperative agricole le terre incolte o mal coltivate dei proprietari terrieri. Negli anni della lotta, Rizzotto guidò i contadini nell’occupazione e nella distribuzione dei terreni gestiti dalla mafia, esponendosi alle prime minacce ed ai primi tentativi di isolamento da parte dei boss corleonesi.
Il Decreto proposto dal ministro Gullo si trasformò in legge nel 1944 e, tra i terreni espropriati e affidati alle cooperative, finì anche uno appartenente a Luciano Liggio, allora affiliato al clan che faceva capo al boss Michele Navarra.

Il lavoro di Rizzotto aveva raggiunto l’obiettivo: liquidare, nel giro di pochi anni, secoli di aberrante latifondismo e cieco sfruttamento della forza-lavoro contadina. La svolta fu storica ed andò ad intaccare pesantemente gli affari della mafia, che non gliela perdonò.
Attirato in un’imboscata, Placido Rizzotto venne rapito e ucciso il 10 Marzo 1948 all’età di 34 anni. A cadere vittima dell’agguato, insieme al sindacalista, fu Giuseppe Letizia, un pastorello che assistette casualmente all’omicidio e che, pochi giorni dopo, morì per tossicosi, probabilmente avvelenato da un’iniezione letale.

Grazie alle indagini condotte da Carlo Alberto Dalla Chiesa – allora Capitano dei Carabinieri – vennero arrestati Pasquale Criscione e Vincenzo Gallura, i quali ammisero di aver preso parte al rapimento insieme a Luciano Liggio. E fu quest’ultimo, secondo la versione di Collura, a gettare il corpo di Placido Rizzotto nelle foibe di Rocca Busambra, vicino Corleone ( i resti sarebbero poi stati ritrovati solo nel 2009). Nonostante l’iniziale ammissione di colpa, i tre vennero tutti assolti dalla Corte d’Assise di Palermo per mancanza di prove, dopo aver ritrattato l’intera confessione in sede processuale.
Placido Rizzotto è uno dei 36 sindacalisti uccisi dalla mafia tra il 1944 e il 1948. Uno, tra i tanti omicidi di quegli anni, senza un mandante, senza un esecutore. A Placido Rizzotto e a tutti i sindacalisti vittime di Cosa Nostra va il merito di aver ridato dignità ai contadini siciliani oppressi da secoli di feudalesimo e di aver seppellito definitivamente la pratica del latifondismo permettendo il ritorno ai braccianti di circa 500.000 ettari di terreno.

Martina Annibaldi

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