‘Ndrangheta, baciamo le mani al Boss in manette

Venerdì 2 Giugno i Carabinieri del Reparto operativo di Reggio Calabria insieme allo Squadrone Cacciatori hanno arrestato nella sua abitazione di San Luca ( Reggio Calabria) il latitante Giuseppe Giorgi , ricercato dal 1994 quando fuggì ad un ordine di arresto seguito alla condanna a 28 anni e 9 mesi per associazione mafiosa finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti,
Giorgi era inserito nell’elenco speciale dei 5 latitanti più pericolosi d’Italia. Esponente di spicco della cosca Romeo di San Luca, genero del capobastone della cosca, Sebastiano Romeo, Giorgi è ritenuto dagli inquirenti una sorta di “manager” del clan, per il quale ha operato dentro e fuori i confini nazionali.
Come tutti i grandi boss, Giorgi ha vissuto la sua latitanza nel paese che lo ha visto nascere e diventare mafioso. San Luca è terra di ‘ndrangheta, terra in cui la mafia è riuscita a permeare tanto a fondo le normali strutture democratiche da rendere impossibile persino l’elezione di un Sindaco.
Da maggio del 2013, quando il Comune viene sciolto per mafia, San Luca viene amministrata da un Commissario. Lo scorso anno la sola lista civica a presentarsi alle elezioni non raggiunge il quorum obbligatorio, quest’anno non c’è nemmeno nessuno a provarci. E lì dove lo Stato non esiste, l’Antistato regna sovrano.
Se oggi San Luca è questo lo si deve anche al clan di Giorgi. I Romeo, insieme ai clan Nirta-Strangio e Pelle- Vottari sono tra le famiglie di ‘Ndragheta più potenti della Locride. Protagonisti di quella sanguinosa faida iniziata nel Febbraio del 1991 e culminata nell’Agosto del 2007 con la strage di Duisburg, che fece conoscere anche in Germania la portata della violenza ‘ndranghetista.
Giuseppe Giorgi, in questi 23 anni, è stato sempre qui. Al momento dell’arresto i Carabinieri, dopo circa 5 ore di perquisizione, lo hanno trovato nascosto in un bunker in muratura grande come un loculo, utile solo in caso di un blitz. Giorgi non viveva nascosto da muri fatti di mattoni ma di silenzi. Gli stessi silenzi che continuano a proteggere un altro superlatitante, Matteo Messina Denaro.
“Andare via significa perdere il potere e nessuno si può permettere di farlo”, spiega il Procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho. Non solo, non andare significa ribadire a gran voce che lo Stato, in alcuni territori, non entra. Lo Stato, in alcuni territori, non esiste affatto. Non è solo la possibilità di controllare e governare sul posto ma è anche un messaggio denso di significati, una sfida lanciata alle istituzioni.
Qualche tempo fa, alla domanda di una giornalista di Repubblica che chiedeva ad un sanluchese cosa facesse lo Stato per queste terre, quest’ultimo rispose con le parole che forse più chiaramente ci restituiscono il quadro della situazione: “Qui lo Stato lo vediamo solo quando i Carabinieri vengono ad arrestare qualcuno”.
Di questo vive il potere di personaggi come Giorgi. E forse ci indigna, ma senza stupore, vedere un compaesano che bacia la mano al boss mentre viene scortato dai Carabinieri fuori dalla sua abitazione. Ci stupisce forse di più osservare quegli uomini delle Forze dell’ordine che lo accompagnano verso chi lo aspetta a braccia tese fuori dalla sua abitazione. Come se anche chi rappresenta lo Stato si fosse ormai arreso all’idea che certi gesti, in queste terre, rappresentano la normalità e si limitasse ad essere quello che quel cittadino di San Luca ha raccontato a Repubblica. Ci sono gesti, simboli di cui la mafia si nutre e attraverso cui la mafia comunica dentro e fuori dai suoi confini prettamente criminali. Accettare o sottovalutare la portata di questi messaggi è un errore gravissimo che rischia di veicolare un’idea di debolezza da parte dello Stato. Che sia il baciamano al boss di San Luca o la scarcerazione dell’ANCORA Capo di Cosa, Totò Riina.

Di Martina Annibaldi

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