La progressione intensiva della categoria di bene comune

D. Paolo Carlotti

(Pontificia Università Salesiana)

  1. Premessa

Queste sintetiche e brevi note intendono presentare l’identità di una categoria, quella appunto di bene comune, che è centrale soprattutto nella configurazione etica della società e della sua guida politica, ma che ritorna ovunque si presentino delle relazioni interpersonali, sia di natura amicale che sociale. Le relazioni interpersonali e sociali si distinguono non per la realtà in atto, cioè il rapporto tra persone, ma perché nelle seconde interviene una mediazione di una istituzione sociale che rende possibile un incontro diversamente impraticabile. Le prime sono dette anche primarie, perché ogni singolo membro di questa comunità intrattiene direttamente e immediatamente – cioè senza la necessità di una mediazione istituzionale – relazioni con ogni altro membro del gruppo, cosa che risulta impossibile per le seconde, che sono indirette e mediate, come ad esempio e per lo più quelle politiche.

In altri termini, in prima battuta, ci si domanda che cos’è il bene comune e a questa domanda si intende dare risposta.

Il percorso che questa riflessione prevede non è piano ma alquanto accidentato.

Infatti, il primo suo compito consiste nel cercare di abbattere i livelli di equivocità a cui la categoria è oggi di fatto esposta, tentando di recuperarne i diversi contenuti sostanziali a fronte di uno stesso uso nominale. In altre e più semplici parole: di fronte al fatto che oggi molti parlano di bene comune, sembra necessario individuare il senso che di volta in volta viene inteso sotto lo stesso nome.

La categoria poi è di natura unitaria e viene pensata ed applicata in un contesto culturale ed intellettuale tendenzialmente decostruttivista e frammentato, debole e provvisorio, in cui gli itinerari sintetici stentano a trovare credito, soprattutto se giudicati implicare quel pensiero forte, che è invalso sospettare come latore di quel fondamentalismo, giudicato da alcuni incompatibile con le odierne democrazie, democrazie che altri invece reputano a marcata conduzione neutrale o relativista a riguardo dei valori etici.

La categoria inoltre è di natura personale e della persona coinvolge tutte le sue dimensioni e ancor di più le sue prerogative, con le relative formalità scientifiche deputate alla loro indagine. Gli aspetti disciplinari coinvolti sono perciò numerosi e ad alto rischio di riduzionismo epistemologico: il compito delicato che si prospetta è quello di veicolare un modello di rapporto interdisciplinare che sappia indicare e praticare l’autonomia relazionale delle diverse scienze coinvolte.

Ed infine, la categoria è soggetta ad una sorta di legge di gradualità che la lascia avvicinare e capire, al tempo stesso, in modo progressivo ed intensivo. A questo punto è anche operata quella scelta di paradigma etico che meglio sostiene le sfide di un discorso razionalmente plausibile.

Evidentemente, non tutto ciò che questa introduzione ha richiamato potrà essere qui affrontato, e tuttavia l’averla comunque offerta mi sembra che permetta uno sguardo complessivo sulla problematica che possa prevenire letture semplicistiche o ideologiche.

  1. L’identificazione

Rispondo subito dicendo che l’identificazione del bene comune consiste nella qualità etica delle relazioni interpersonali, secondo la loro propria specificità. Quando un incontro tra le persone, mediato o meno da istituzione sociale, verifica positivamente i parametri della realizzazione umanamente sensata, allora si realizza il bene comune. Questo risulta quindi costituito da due riferimenti ineludibili: dal dato di fatto della pluriforme relazionalità intersoggettiva e dalla corrispondente opzione di attuarla in modo morale: relazionalità e moralità sono dunque i due ineludibili referenti, rispettivamente a livello antropologico ed etico, del bene comune.

Il bene comune è quindi un bene relazionale ed individua un rapportarsi vicendevole delle persone veramente degno della loro dignità, cioè eccellente, a livello sia di atteggiamento sia di comportamento. È quindi da definirsi a partire dallo specifico personale della persona nel suo differenziato e mediato incontro con l’altro da sé, con il chiunque altro.

Per questo lo ritroviamo sempre presente nella ricca tipologia delle comunità sia primarie – familiare, ecclesiale, amicale ecc. – sia secondarie – nazionale, internazionale, mondiale, universale ecc. – precisando per ciascuna una particolare modalità di realizzazione di quell’istanza comune che consiste nel promuovere l’incontro delle persone secondo le persone.

Il rapportarsi delle persone è molto ricco ed implica quindi identità e diversità. L’identità è data dal fatto che sempre sono persone che si incontrano, mentre la diversità è data dal tipo di relazione interpersonale che interviene. Ad esempio: la complementarietà sessuale interviene sempre in presenza della differenza sessuale e mai in sua assenza. E d’altra parte le relazioni interpersonali a complementarietà sessuale non implicano per lo più una relazione coniugale, che interviene solo a seguito di una decisione specifica dei partners. L’essere figlio implica un rapporto diverso dall’essere marito o moglie, come pure l’essere cittadino, cioè l’essere membro di una specifica comunità nazionale a mediazione istituzionale, è diverso dall’essere amico.

Per questo stesso motivo troviamo il bene comune in stretta congiunzione con altre categorie ad alto tasso di definizione relazionale, quale quella della pace, della giustizia, della solidarietà e, in ambito teologico, quella della carità.

E qui è il caso di ricordare il classico e costante insegnamento sia del pensiero sia del magistero sociale cattolico, che vede l’emergenza della persona rispetto alle diverse comunità di differenziata appartenenza. La persona è il vero centro della relazionalità morale, perché, nel creato è la realtà più unitaria e consistente, la più perfetta, per riprendere la nota definizione tommasiana: «…persona significat id quod est perfectissimum in tota natura, scilicet subsistens in rationali natura»,[1] realtà che non rimanda ad altro come la società e la cultura, ma consiste in se stessa, come ancora s. Tommaso d’Aquino segnala, dando una definizione, che diverrà tradizionale e di fatto ineludibile, del rapporto tra la persona e la società: «…homo non ordinatur ad communitatem secundum se totum et secundum omnia sua…».[2] Così commenta E. Berti «…la famosa distinzione… significa che tutto l’uomo fa parte della società politica, perché non è autosufficiente, cioè ha bisogno della società per realizzarsi completamente (ed in questo è parte); e tuttavia non ne fa parte secondo tutto se stesso, perchè la persona è fine in se stessa e la società deve servire alla realizzazione di essa, non viceversa (ed in questo senso essa è un tutto».[3]

Mi sembra di percepire nel principio di sussidiarietà – classico riferimento del pensiero e del magistero sociale cattolico – un coerente corollario di quanto appena affermato. Proprio perché la persona è realtà sociale e contestualmente realtà trascendente la società «…non è lecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità»,[4] – – se lo fosse, l’individuo sarebbe di fatto esautorato e sarebbe ricondotto a sudditanza sociale. Proprio perché nella società si tratta sempre di persone, così continua il citato numero: «…così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare».

  1. Lo svolgimento riflessivo

 Sono svariati gli elementi che convergono a meglio illustrare e a dare più concreti contenuti alla riflessione appena intrapresa: una veloce rassegna può risultare più che conveniente.

L’etica di ispirazione personalista – sensibilità ben presente nella costituzione pastorale del Concilio Vaticano II – riconosce come luogo forte, in cui il senso della vita quasi insorge e si costituisce, l’incontro con l’altro, come altro da me e come uguale a me: uguale nella natura personale, altro da me nella sua concreta determinazione.

Di questa insorgenza relazionale occorre evitare una concezione relativa dell’alterità, che adegua ed omologa l’altro a sé, sminuendolo nella sua consistenza: allora l’altro diventa la copia del sé, è l’altro del medesimo. Di quest’approccio una delle varianti più note è l’individualismo programmatico, meglio noto come egoismo razionale. La concezione antropologica soggiacente pensa il soggetto umano non solo come autonomo, ma una monade in sé. Questo soggetto sarebbe quindi autorizzato a perseguire i propri specifici interessi, a cui gli altri non possono sovvenire ma solo ostacolare. Quindi occorre venire a ragionevoli patti, per evitare che la loro mancanza determini una tale situazione selvaggia, in cui la massimizzazione del proprio interesse subisca un indebolimento o addirittura un tracollo. La morale verrebbe qui ad assumere quella figura scadente di regolatrice del gioco degli interessi individualistici, il cui presupposto rimane, certe volte, tanto socialmente acquisito quanto eticamente discutibile. È ciò che in modo puntuale ed ancora attuale segnala Evangelium vitae 23: «Il criterio proprio della dignità personale – quello cioè del rispetto, della gratuità e del servizio – viene sostituito dal criterio dell’efficienza, della funzionalità e dell’utilità: l’altro è apprezzato non per quello che ‘è’, ma per quello che ‘ha, fa e rende’».

È pure vincolante scartare una concezione assoluta dell’alterità, che rende l’altro totalmente altro, inavvicinabile ed incomunicabile, che nega una comunanza se non di natura almeno di specie, invece esistente.

È raccomandabile invece una concezione relazionale dell’alterità, in cui ad incontrarsi è l’altro di sé – l’io – e l’altro dell’altro – il tu – dove l’io e il tu sono definiti però a partire da ciò che li costituisce, cioè la rispettiva alterità.

Si noti che la centralità etica della persona risuona anche nell’approccio trascendentale di I. Kant, nella seconda formula del suo imperativo categorico, ripresa in un inciso della Veritatis splendor, 48: «Agisci in modo da trattare l’umanità così nella tua persona quanto nella persona altrui sempre nello stesso tempo come fine e mai semplicemente come mezzo».[5] E in modo pertinente e acuto così commenta la formula il noto filosofo morale A. MacIntyre: «Per Kant… la differenza tra una relazione umana non ispirata alla morale ed una ispirata ad essa coincide esattamente con la differenza fra una relazione in cui ciascuno tratta gli altri in primo luogo come mezzi per i propri fini, e una in cui invece ciascuno tratta gli altri come fini in se stessi. Trattare qualcun altro come fine, vuol dire esporgli quelle che io ritengo essere buone ragioni per agire in un modo piuttosto che in un altro, ma lasciarlo libero di valutare tali ragioni. Vuol dire non essere disposti a influenzare un altro se non mediante ragioni che egli giudichi valide. Vuol dire appellarsi a criteri impersonali circa la cui validità ciascun soggetto razionale deve essere il proprio giudice. Al contrario, trattare qualcun altro come mezzo significa cercare di trasformarlo in uno strumento per i miei scopi avvalendomi di qualsiasi influenza o considerazione possa risultare di fatto efficace in questa o quella circostanza. Ciò di cui avrò bisogno per orientarmi sono le generalizzazioni della sociologia e della psicologia della persuasione, non i modelli della razionalità normativa».[6]

4. L’incremento progressivo ed intensivo

Il numero 164 del CDSC introduce la classica definizione di bene comune – proposta dalle encicliche sociali del b. Giovanni XXIII, dalla costituzione pastorale del Vaticano II e da Paolo VI nella lettera Octogesima adveniens al card. Roy – come una prima e vasta accezione e risulta come «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente». La definizione riportata sembra lontana a prima vista da quella connotazione relazionale su cui abbiamo incentrato la nostra riflessione sul bene comune.

E tuttavia il riferimento alle condizioni della vita sociale concretizza del bene comune una valenza che è quella che attiene al suo rapporto con la giustizia e ne vede lo svolgimento nell’affermazione, nella difesa e nella promozione dei diritti dell’uomo. Inoltre è così esclusa ogni forma di spiritualismo disincarnato – purtroppo rischio prossimo di ogni lettura religiosa – e disattento alle condizioni materiali del bene delle persone e delle società, soprattutto quelle che fronteggiano tutti i problemi connessi col vivere al di sotto della soglia di povertà. L’essere nel corpo delle persone non solo non può essere soppresso ma la sua considerazione raggiunge il bene comune a tutti, per cui si ha cura di assicurare a tutti quelle condizioni, anche materiali, senza le quali non si può vivere.

Può essere qui utile ricordare la differenziazione tra l’emergenze e l’urgenza dei beni. Certo tra la nutrizione e l’educazione è per l’uomo più emergente e importante la seconda sulla prima, anche se talora la prima è più urgente, è da assicurare subito mentre la seconda da differire: la priorità temporale è distinta da quella valoriale.

4.1. 1° Excursus: bene comune e giustizia

La connessione del bene comune con la giustizia, che è per se stessa ad alterum, evidenzia nel rapporto con l’altro esattamente il suo concreto ed oggettivo esserci, che non solo non può essere impunemente misconosciuto, ma risulta invece urgente garantire. L’attribuire all’altro ciò che ineludibilmente gli spetta costituisce l’orizzonte minimale e quindi il discrimine tra l’attivazione o la disattivazione etica della relazione. La giustizia proprio perché minimale è assolutamente dovuta e la sua violazione è grave perché vi corrisponde la scelta negativa della semplice soppressione dell’altro.

È facile, necessario ma anche ambiguo il ricorso ai diritti dell’uomo come elemento che sostanzia questo discorso. La nostra attuale sensibilità, anche ecclesiale, ci rende facile questo collegamento, come pure la percezione della sua necessità, se si vuol dar forma e corpo a istanze vincolanti a livello universale. E tuttavia la categoria dei diritti dell’uomo non è categoria di evidenza e trasparenza ultima, rimanda invece alla specifica assunzione e giustificazione di teorie etiche globali:[7] solo a questo livello sui diritti umani è possibile una convergenza contenutistica e non solo nominale, come diversamente è scontato che avvenga.

In margine a queste considerazioni può essere utile rammentare che la stessa teoria – in parte contrattualista – della giustizia di J. Rawls, prospetta una ‘posizione originaria’, per garantire una giusta decisione nell’allocazione delle risorse e delle opportunità sociali, in questi termini: «a. Ogni persona ha lo stesso titolo indefettibile a uno schema pienamente adeguato di uguali libertà di base compatibile con un identico schema di libertà per tutti gli altri. b. le disuguaglianze sociali ed economiche devono soddisfare due condizioni: primo, devono essere associate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa eguaglianza delle opportunità; secondo, devono dare il massimo beneficio ai membri meno avvantaggiati della società (principio di differenza)».[8]

Come poi non estendere quanto appena affermato alla qualità del rapporto interpersonale, derivante dal comune riferimento ai beni della terra, il cui uso, una persistente tradizione di pensiero, anche cattolica, vuole destinato anche «ut communis».[9] Quanto basta per escludere forme di accaparramento, anche giuridicamente permesso, quale quella che avviene nella assoluta massimizzazione del profitto economico e soprattutto finanziario.

4.2. 2° Excursus: bene comune e verità.

È poi ben vero che ogni relazione intersoggettiva è moralmente praticabile solo nella verità e il primo gesto di promozione del bene comune è la dimora nella verità, come il primo gesto della sua negazione è la ‘terra di nessuno’ della menzogna.

Mai come oggi la verità, in particolare quella morale, è questione in tutta l’ampiezza semantica del termine, non solo per quanto concerne la selezione dei criteri della sua determinazione, ma ancor più per quanto attiene alla ponderazione della possibilità, dell’utilità e della difficoltà della sua ricerca. Sembrerebbe che all’uomo di oggi sia sì possibile un’etica, ma solo senza verità ed che questo esito sia altresì auspicabile, in quanto ogni riferimento alla verità attiverebbe una figura fondamentalista che impedirebbe la gestione delle nostre culture e società, sempre più plurali e fluide, cioè connotate in modo plurale rispetto ai paradigmi etici e in modo fluido rispetto alla distinzione tra il bene e il male. Per questo, l’uomo moderno è – e per alcuni sarebbe inevitabilmente destinato ad essere – rispetto al suo simile – come con felice espressione ha stigmatizzato T. Engelhardt – «straniero morale»[10] e quindi non gli rimarrebbe altra strada che quella della contrattazione funzionale o comunque consensuale, a fronte di percorsi operativi alternativi delle diverse agenzie.

La voltura consensuale o pattizia della verità, che, per il suo richiamo di convocazione democratica, sembrerebbe essere atta a favorire una buona qualità relazionale e quindi a promuovere la pace, in realtà, per l’intrinseca debolezza del suo riferimento alla realtà, risulta notevolmente incerta e sguarnita nell’indicarne il fondamento a effettiva valenza culturale. È poi ben raro che l’accordo o il contratto non sia deciso a maggioranza, talora la maggioranza del momento, del più forte o del più interessato allo status quo, diventa l’unica fonte della dignità dell’uomo, dignità che non corrisponde a ciò che io penso o concedo che all’altro spetti, ma a ciò che all’altro in realtà spetta. È su questo fondamento a base naturale e non consensuale, che è chiamato a convergere il riconoscimento sociale e politico.

Concorre alla precarietà del quadro finora abbozzato la cosiddetta neutralità etica della politica o l’equidistanza della politica nei confronti delle Weltanschuungen etiche. È certo da ritenersi una positiva conquista il deciso superamento del cosiddetto ‘stato etico’, uno stato cioè espressivista nei confronti di una specifica visione valoriale, visione che diventava poi oggetto di svariata promozione ed anche imposizione. E tuttavia la figura semplicemente procedurale o al massimo funzionale dell’istanza politica, primo titolare del perseguimento del bene comune e della pace, risulta essere in più di un’occasione e per più di un aspetto riduttiva, quando la verità è considerata un bene privato e preferenziale, non pubblico e tanto meno comune, è di alcuni e non di tutti e soprattutto quando la democrazia sembra preferire il relativismo, che sembrerebbe l’autentica garanzia della libertà, anche di quella della coscienza morale e addirittura religiosa.

E allora ritorna con H. Jonas la domanda circa la tenuta e la capacità degli attuali governi costituzionali e democratici, così frequentemente dipendenti dall’elettorato, a svincolarsi dalle rispettive lobbies, qualora dovessero essere in condizioni di dover esigere dalla cittadinanza un notevole e prolungato contenimento del rispettivo tenore di vita. Questa tenuta è certamente più precaria e debole se poggia su una giustificazione procedurale della pubblica autorità.

Del resto basta solo riferirsi ad un autore classico del pensiero politico come Aristotele, per rintracciare una più rilevante connessione tra etica e politica. Dopo aver nell’etica descritto e definito l’ideale di vita buona, nel passare ad occuparsi della giusta organizzazione e gestione della polis, ha costantemente tenuto presente la dimensione morale, in quanto si è preoccupato di formare la città in modo tale che i suoi membri potessero facilmente perseguire l’ideale di vita buona. Tutto ciò implica un rapporto non semplicemente equidistante della politica dall’etica.

Continuando la nostra riflessione sulla china della progressione di senso che la categoria di bene comune comporta, dopo averne presentato il suo primo accostamento e, sempre sostenuti dal CDSC in particolare al suo numero 390, ci imbattiamo in una affermazione che esplicitamente tematizza quella dimensione relazionale ad alta definizione etica individuata come decisiva per la nostra succinta trattazione. Eccola: «Il significato profondo della convivenza civile e politica non emerge direttamente dall’elenco dei diritti e dei doveri della persona. Tale convivenza acquista tutto il suo significato se basata sull’amicizia civile e sulla fraternità. Il campo del diritto, infatti, è quello dell’interesse tutelato e del rispetto esteriore, della protezione dei beni materiali e della loro ripartizione secondo regole stabilite; il campo dell’amicizia, invece, è quello del disinteresse, del distacco dai beni materiali, della loro donazione, della disponibilità interiore alle esigenze dell’altro… Si tratta di un principio rimasto in gran parte non attuato nelle società politiche moderne e contemporanee, soprattutto a causa dell’influsso esercitato dalle ideologie individualistiche e collettivistiche».

È proprio questo concetto di amicizia civile che invita a richiamare una distinzione classica della filosofia e teologia scolastica e ripresa ed attualizzata da quel personalismo sostanziale (J. Maritain) che ad essa maggiormente si ricollega.

Si dà un ‘amore di concupiscenza’ che induce a rapportarsi all’altro in quanto è percepito come un bene per noi, in quanto è funzionale alla nostra realizzazione, propriamente si ama se stessi.

L’ ‘amore di benevolenza’ richiede invece un salto qualitativo, un rapporto all’altro di per se stesso, per ciò che l’altro è in sé e non per ciò che l’altro è per me. L’amicizia è la forma ottimale di reciproca, stabile e partecipata benevolenza, che giunge alla piena condivisione dell’intenzionalità della volontà – «idem velle idem nolle» si è uniti nel volere la stessa e nel non volere la stessa cosa – e si giunge così a diventare «quodammodo unum».[11]

L’amicizia civile matura quando, in stretta e ricercata sintonia col bene morale – è ovvio che non si dà alcun bene sopratutto se comune al di fuori della moralità e solo al suo interno è possibile parlare di solidarietà, diversamente vi è solo connivenza – emerge una condivisione intenzionale di progettualità sociale, politica ed economica e ci si ritrova uniti nell’attuazione di questa idealità (idem velle) come pure nel rifiuto di ciò che l’avversa e la nega (idem nolle). Solo in questo modo la società si unifica e non si disperde e si creano relazioni umane qualificate, in cui la vicendevole fiducia e non il vicendevole sospetto crescono, creando quella corrispondenza di attese in cui la persona è, e quindi può sentirsi, accolta e non invece sola e abbandonata, come inevitabilmente è, e quindi si sente, quando dall’altro occorre in prima battuta difendersi.

È ovvio che un quadro sociale caratterizzato dal bene comune, se al suo livello minimale, cioè quello della giustizia, è assicurato con la semplice prestazione operativa a prescindere dalla qualità della persona che la compie, al suo livello più elevato ed ottimale, cioè quello dell’amicizia, è garantito solo da una persona, che non solo compie il bene ma è buona è in altre parole virtuosa.

Sant’Agostino nelle sue Confessioni (1, 12) lo ricorda e val la pena di riprenderlo qui: «Non amavo lo studio – così si esprime – ed odiavo esservi costretto: vi ero però costretto e per il mio bene, ma io non compivo il bene perché non avrei studiato senza costrizione, ed evidentemente chi agisce suo malgrado, non compie il bene, per quanto sia bene quello che compie». Alla prestazione di giustizia si può e talora si deve costringere, ma l’amicizia civile è libera, consapevole e responsabile scelta: solo quindi un’etica della virtù è compatibile con questa piena comprensione del bene comune. In fondo si afferma che è impossibile in profondità fare del bene a qualcuno se non gli si vuol bene, è impossibile la beneficenza senza la benevolenza: alla benevolenza non può costringere neanche uno stato poliziesco.

  1. La versione utilitarista

All’inizio si accennava al fatto che la categoria del bene comune è interessata da una certa equivocità che la espone al fraintendimento, pur in presenza di una coincidenza nominale. La spiegazione del fenomeno si attribuiva al reperimento di diversi parametri etici. È forse conveniente addurre un esempio nel caso dell’utilitarismo, anche perché è sovente ripetuto che il bene comune non è la semplice somma dei beni dei singoli agenti sociali e l’introduzione appena operata del concetto di amicizia sociale ci permette di percepirne il motivo. Tuttavia proprio l’utilitarismo permette una somma ancora più problematica, proprio perché essa avviene a livello generale della società, una somma la cui utilità può permettere addirittura il sacrificio del bene del singolo, evenienza categoricamente esclusa da un’etica della virtù. In quest’ottica, il bene seppur nominato comune risulta però di fatto essere semplicemente totale, tale per cui non si dà certezza che tutti possano accedere alla decenza della vita. Inoltre si possono prevedere prolungate povertà e accentuate disuguaglianze nelle società al fine di massimizzare il bene totale. Siamo di fronte a quella che è stata in modo icastico definita la biopolitica, cioè come in natura si sacrificano singoli individui per aumentare il benessere collettivo, così sarebbe nella gestione politica della società.

«Un modo semplice, ma efficace, di cogliere in concreto il significato proprio di bene comune è metterlo a confronto col concetto di bene totale. Mentre quest’ultimo può essere metaforicamente reso con l’immagine di una somma, i cui addendi costituiscono i beni individuali (o dei gruppo sociali di cui è formata la società), il bene comune è piuttosto paragonabile al prodotto di una moltiplicazione, i cui fattori rappresentano i beni dei singoli individui (o gruppi). Di qui il senso della metafora: in una somma anche se alcuni addendi si annullano, la somma totale resta comunque positiva. Anzi, può addirittura accadere che, se l’obiettivo è massimizzare il bene totale (ad esempio, il prodotto interno lordo [PIL] nazionale), convenga ‘annullare’ il bene (o benessere) di qualcuno a condizione che il guadagno di benessere di qualcun altro aumenti in misura più che sufficiente per la compensazione. Non così, invece, con il prodotto di una moltiplicazione, perché l’annullamento anche di un solo fattore azzera l’intero prodotto».[12] La programmatica dimenticanza del bene di un solo membro di una qualsiasi comunità evidentemente impedisce a quest’ultima di perseguire il proprio bene comune.

  1. Il Vangelo del bene comune

L’indole teologico-morale del contributo impedisce uno svolgimento privo, per lo meno, di un riferimento biblico. Mi limito ad offrire una pista di riflessione in continuità con la chiave di lettura relazionale finora privilegiata nell’accostare il bene comune. La lettura cristiana e quindi teologica della qualità della relazione avviene nell’accoglienza del senso del mistero pasquale: il vangelo del bene comune è annunciato e realizzato come dono del Crocifisso Risorto (Gv 20, 19-23 e 14,17), che lascia la usa pace.

La natura relazionale del bene comune, quale finora siamo venuti delineando, trova la sua risignificazione e la sua trasfigurazione nel mistero pasquale di Gesù crocifisso e risorto, quando si proclama e si realizza la possibilità e la ragionevolezza dell’amore: è possibile amare sempre e, amando, l’uomo non ci perde né si perde. Non sempre la valenza morale di questo mistero è stata ben focalizzata. Nella sua passione, il Cristo opera una scelta autentica e radicale di amore, che mantenendosi fedele a sé stessa, nonostante il dilagare di tutte le risorse e le iniziative del misterium iniquitatis, stabilisce e mostra la vittoria dell’amore sull’odio, della vita sulla morte, del bene sul male. La continuità tra il Crocifisso e il Risorto non è solo fisica ma morale: è una scelta morale, quella del volere rimanere e dimorare nell’amore fino alla fine, che segnala il motivo della risurrezione del Crocifisso stesso. È questa continuità ‘morale’ del Crocifisso col Risorto il fondamento della morale cristiana e della possibilità dell’amicizia civile, cioè di una qualità adesso veramente alta ed eccellente delle relazioni e degli incontri delle persone.

L’amore del Padre non ha risparmiato al Figlio di subire la sofferenza causata dal male del mondo, né il Figlio ha vincolato il riconoscimento dell’amore del Padre a questo risparmio, ma mantenendosi fedele all’amore nel momento in cui il male infuria, lo rende inutile, lo piega e lo vince con ciò che solo può veramente vincerlo, il bene e l’amore. È interessante qui notare il ricorrere, nei racconti di passione, del verbo latino tradere nella duplice accezione di tradimento e di consegna. Nel carosello delle consegne di Gesù a Caifa, a Pilato e dei tradimenti subiti da parte di Giuda e di Pietro, Gesù, persegue un’altra progettualità: si consegna al Padre e consegna lo Spirito dell’Amore che li unisce.

Solo il confronto aperto col male, mosso da una logica positiva, può vincerlo, solo la disponibilità a portarne il peso può togliere e sopprimere la sua presenza. È qui e così che l’unità inscindibile del duplice comandamento dell’amore trova la sua spiegazione, la sua manifestazione e la sua realizzazione, ma più profondamente «…il ‘comandamento’ dell’amore diventa possibile solo perché non è soltanto esigenza: l’amore può essere ‘comandato’ perché prima è donato».[13] La Pasqua del Cristo è manifestazione trinitaria perché il Risorto effonde lo Spirito – emisit spiritum (Mt, 27,50); tradidit spiritum (Gv, 19,30) -: quando la scelta di consegnarsi di Gesù all’amore è compiuta, lo Spirito dell’Amore viene consegnato: qui la il momento pneumatologico e cristologico si legano inscindibilmente.

Un anticipo significativo della logica pasquale è l’emblematico episodio di Zaccheo (Lc, 19,1-10), capo dei pubblicani, collaborazionista con la potenza occupante, colpito e perseguitato dal giudizio perentorio dell’opinione pubblica, per la quale Zaccheo non poteva essere diverso da ciò che finora era stato. A questa possibilità crede Gesù ed apre un credito infinito verso Zaccheo, autoinvitandosi in quella casa in cui probabilmente nessuno avrebbe voluto entrare, in aperta sfida della maggioranza. La gratuita fiducia di Gesù rende pieno il tempo biografico di Zaccheo e la sua conversione non è più indistinta e vaga ma diventa praticabile, appunto per l’iniziativa di Gesù. Il suo riconoscerlo persona gli permette di riconoscere se stesso come capace di novità, espressa puntualmente nella riconoscenza degli altri – oggetto della sua frode passata -, a cui restituisce insieme col maltolto lo status di fratelli. La conversione non è frutto di uno scambio contrattuale, ma conseguenza dell’azione preveniente di Gesù, insieme sorprendente ed insperata, anche se forse a lungo attesa ed invocata.

Una verace attualizzazione della Pasqua è quella prospettata da Paolo, quando nella lettera ai Corinti indica l’evenienza di una profanazione della celebrazione eucaristica. Avviene quando nell’assemblea si riproducono i rapporti di sopraffazione e di violenza presenti nella società a tal punto che, anche qui purtroppo, il ricco è considerato e il povero emarginato. L’invito naturalmente è a fare l’opposto a cambiare secondo i rapporti dell’assemblea i rapporti esistenti nella società, cioè a creare rapporti comunione in stato di sopraffazione: la possibilità del progetto è assicurata dalla Pasqua di Cristo e il fedele sceglie di partecipare nell’Eucaristia a questa Pasqua, cioè sceglie di fare della propria vita ciò che il Cristo ha fatto della sua, una dedicazione incondizionata all’amore.


[1] S. Th., I, q. 29, a. 3.

[2] S. Th., I. II, q. 21, a. 4, ad 3.

[3] E. Berti, Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica = Strumenti di analisi 1 (Reggio Emilia, Diabasis 1993) 32s.

[4] Pontificio Consiglio per la giustizia e la pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa (Città del Vaticano, LEV 2004) [CDSC] 186.

[5] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cap. 2, § 10.

[6] A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale = Campi del sapere (Milano, Feltrinelli 1988) 37.

[7] Cfr. W. Cooney, Rights Theory, in R. Chadwick, [ed.] Encyclopedia of Applied Ethics (San Diego – ecc., Academic Press 1998) 3: 875-883.

[8] J. Rawls, Giustizia come equità. Una riformulazione = Campi del sapere 67 (Milano, Feltrinelli 2002).

[9] Conc. Vat. II, Gaudium et spes, 69.

[10] T. H. Engelhardt jr., Manuale di bioetica = La cultura 535 (Milano, Il Saggiatore 1999) 144.

[11][11] S. Th., I-II, q. 27, a. 3, resp. Cfr. anche Benedictus XVI, Deus caritas est.

[12] Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali dei Cattolici Italiani, Il bene comune oggi: un impegno che viene da lontano(Bologna, EDB 2007) 34.

[13] Benedictus XVI, Deus caritas est, 14.

Print Friendly, PDF & Email