L’educatore tra disagio e prevenzione

La figura dell’educatore è una figura in qualche modo incerta, costantemente in via di definizione, in apparenza non ha delineati compiti e funzioni. Ma questa apparente debolezza è essenziale perché racchiude in sé la propria forza.

Il concetto platonico di metaxu indica l’essere collocati “nel mezzo”, tra la nostra terra, il nostro ambiente circostante, concreto, materiale, che pensiamo di conoscere bene, e la trascendenza, il mistero. Questo concetto definisce la condizione dell’essere umano come creatura inguaribilmente “a metà strada”.[1]

Una “capacitazione” per l’educatore, per citare l’economista e filosofo indiano Amartya Sen, perché si concentra sulle effettive possibilità che un individuo possiede per raggiungere i propri obiettivi, facendo attenzione non solo ai beni principali posseduti da ogni singola persona, ma ponendo l’accento anche sulle caratteristiche personali e peculiari che consentono di promuovere la capacità di raggiungimento dei propri scopi: “La capacitazione di una persona non è che l’insieme delle combinazioni alternative di funzionamenti che essa è in grado di realizzare. E’ dunque una sorta di libertà: la libertà sostanziale di realizzare più combinazioni alternative di funzionamenti”.[2]

Una costante apertura di possibilità nel proprio agire e nel proprio modo di essere, mettendo in discussione in ogni momento le proprie finalità, attraverso un’analisi e un’indagine permanente del proprio lavoro educativo.

Nonostante questo, la figura dell’educatore ha un profilo ben preciso: “Attualmente, dopo ulteriori esperienze, studi, ricerche e sistematizzazioni legislative l’educatore professionale può essere, sinteticamente e con sufficiente accordo, ritenuto un operatore che ha come compito generale (dichiarato/auspicato/ambito) individuare/promuovere/sviluppare le cosiddette “potenzialità” (cognitive, affettive, relazionali) dei soggetti individuali e collettivi”.[3]

Può pertanto operare su differenti piani di azione educativa e con obiettivi diversi tra loro: quello della promozione, mettendo in atto azioni educative volte a rendere abili i soggetti per fare in modo che le loro potenzialità si tramutino in atti cognitivi, affettivi e relazionali, attraverso l’acquisizione di competenze specifiche. Un altro obiettivo è quello della riabilitazione, per permettere una riacquisizione delle potenzialità perdute.

Un lavoro che sostanzialmente si esprime nel disagio, che può essere fisico, sociale, affettivo, cognitivo, ecc.

Ma c’è ancora un altro piano nel quale l’educatore può esprimere la propria professionalità ed è quello preventivo: fare in modo, in questo caso, che le potenzialità negative o autodistruttive non si trasformino in atti, cercando di evitare quei fattori di rischio che si possono incontrare lungo il corso della vita: “Possiamo genericamente definire i fattori di rischio come delle variabili modulatrici, a carattere sommativo e moltiplicativo, che, pure non costituendo condizioni necessarie e sufficienti a determinare una malattia fisica, un disturbo mentale o un disadattamento, possono però contribuire al suo sviluppo o alla sua cronicizzazione. Si tratta pertanto di fattori che incrementano la possibilità di insorgenza, durata e gravità di un problema di salute. In letteratura compaiono definizione diverse, ma sostanzialmente sovrapponibili”.[4]

Pertanto, un educatore può intervenire ancora prima che il disagio si manifesti, attraverso azioni educative che tengano conto della persona, non solo tramite la logica della trasmissione delle informazioni o di avvertimenti, ma con interventi che pongano al centro l’acquisizione di competenze specifiche da parte dei destinatari rispetto ai possibili rischi, analizzando e riflettendo sulle esperienze e sui contesti di appartenenza.

Sarà perciò importante conoscere il vissuto di chi ci troviamo davanti, praticando un’accoglienza priva di pregiudizio: i valori sono interpretabili ed esprimono sempre una ricerca di senso e di significato molto soggettiva. E come è possibile farlo? “Con quali strumenti lavora l’educatore? Con le parole. L’educatore parla. Anche quando il suo lavoro implica di usare le mani, come il maestro che insegna all’apprendista a modellare l’argilla o lo scienziato che insegna allo studente a usare un microscopio, i suoi gesti sono accompagnati dalle parole”.[5]

Paulo Freire ha condotto una riflessione critica sulle virtù dell’educatore[6], sostenendo che tali virtù non possono essere qualcosa che alcuni hanno per nascita ed altri ricevono in dono, ma si tratta di “una maniera di essere, di vedere le cose, di comportarsi, di comprendere tutto quello che si crea attraverso la pratica, nella ricerca della trasformazione della società”.[7]

Questi gli otto punti della sua riflessione:

  • La coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa.

È una virtù che enfatizza la necessità di ridurre la distanza tra discorso e pratica, anche senza per forza ambire alla coerenza totale e assoluta. “Non posso proclamare la mia scelta per una società più giusta, partecipativa, e al tempo stesso disprezzare un alunno che mi critica in quanto professore”.

  • Gestire la tensione tra parola e silenzio.

Tra la parola dell’educatore e il silenzio dell’educando, tra la parola degli educandi e il silenzio dell’educatore si crea una tensione permanente che, se non viene risolta, rischia di suggerire il silenzio permanente degli educandi.  Diventa dunque fondamentale imparare “che non esistono domande stupide e che nessuna risposta è definitiva”; anzi, è necessario che l’educatore testimoni il gusto e il rispetto per la domanda, che non castri la curiosità perché senza curiosità non c’è creatività. È necessario – afferma Freire – sviluppare una pedagogia della domanda perché quella che siamo abituati a sentire è una pedagogia della contestazione, della risposta. In generale, noi professori rispondiamo a domande che gli alunni non hanno fatto”.

  • Gestire criticamente la tensione tra soggettività e oggettività.

È la tensione che si insinua tra la coscienza e il mondo, tra il sociale e la coscienza. Immaginare di trasformare la realtà trasformando la coscienza delle persone, afferma Freire, è un mito. Un equivoco speculare è ritenere che si debba solo trasformare l’oggettività affinché, il giorno dopo, cambi anche la soggettività perché “la soggettività cambia nel processo di cambiamento dell’oggettività. Io mi trasformo nel trasformare. Io sono fatto dalla storia nel momento in cui la faccio”.

  • Differenziare il qui e ora dell’educatore dal qui e ora dell’educando.

Scrive Freire: “Nella misura in cui non comprendo la relazione tra il ‘mio qui’ e ‘il qui’ degli educandi inizio a scoprire che il ‘mio qui’ e il ‘là’ degli educandi. È ovvio; non esiste ‘là’ senza ‘qui’ solamente perché esiste qualcosa di diverso che è il ‘là’. È possibile riconoscere un ‘qui’ solamente perché esiste il suo contrario”.

  • Evitare lo spontaneismo senza cadere nella manipolazione.

Tra le virtù dell’educatore, osserva Freire, c’è lo sforzo di evitare la caduta in pratiche spontaneistiche senza per questo cadere in posizioni manipolatorie.

  • Vincolare teoria e pratica.

La relazione profonda tra pratica e teoria – vissuta come unità contraddittoria e non come sovrapposizione – consente che la pratica non possa prescindere dalla teoria. In altri termini, osserva Freire, dobbiamo pensare teoricamente, con studio e rigore, alla pratica per poter migliorare la pratica.

  • Praticare una pazienza impaziente.

La relazione tra pazienza e impazienza non dovrebbe mai interrompersi e non dovrebbe mai tradursi solo nella pazienza o solo nell’impazienza, ma nella virtù di “essere pazientemente impaziente e impazientemente paziente”.

  • Leggere il testo a partire dalla lettura del contesto.

L’intera riflessione di Freire sulle virtù dell’educatore si intreccia con la lettura del testo e del contesto, anzi con una lettura del testo che “presuppone una rigorosa lettura del contesto”.

Pertanto, la formazione degli educatori è essenziale, ma non sufficiente, come scrive Alves: “Come per mezzo di corsi è possibile insegnare a qualcuno la scienza del linguaggio ma non a essere poeta, così avviene con l’educatore: l’insegnamento delle scienze dell’educazione non riesce a formare educatori. Educatori non si diventa, si nasce”.[8]

di Francesca Mara Tosolini Santelli

[1] Cfr. Adam Zagajewski, L’ordinario e il sublime, Bellinzona, Casagrande, 2012, p. 17.

[2] Cfr. Amartya Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Mondadori, Milano, 2000.

[3] Sergio Tramma, Senso e complessità del lavoro educativo, Carocci, Roma, 2018, pag. 19.

[4] Mario Becciu, Anna Rita Colasanti, Prevenzione e salute mentale, Manuale di psicologia preventiva, Franco Angeli, Milano, 2016, pag. 67.

[5] Rubem Alves, Pedagogia e desiderio, EDB, Bologna, 2015, pag.30.

[6] Virtudes de educator è un discorso pronunciato da Paulo Freire il 21 giugno 1985 alla riunione preparatoria della terza Assemblea mondiale per l’educazione degli adulti promossa dal Consiglio per l’educazione degli adulti dell’America Latina, ora in Paulo Freire, Le virtù dell’educatore, Bologna, EDB, 2017.

[7] Paulo Freire, Le virtù dell’educatore, EDB, Bologna, 2017, pag. 23.

[8] Rubem Alves, Pedagogia e desiderio, EDB, Bologna, 2015, pag.123.

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