Riflessioni tra un treno e l’altro

Simone Cerulli

Tempo fa ho avuto bisogno di viaggiare in treno. Ne avevo trovato, per quella mattina, uno diretto: merce che avevo scoperto essere molto rara per la tratta in questione. Erano giorni quindi che tenevo bene a mente l’orario di partenza, e che avevo calcolato a che ora mi convenisse partire da casa in modo da avere tempo sufficiente a raggiungere la stazione. Ma, come ogni volta che ho preso il treno in vita mia, ho fatto tardi e l’ho perso. Mai che i treni che devo prendere siano in ritardo, sempre puntuali. Avevo quindi guadagnato un’ora e mezza per fare colazione e fumare girovagando per quella metropoli che è la stazione Termini, e non avrei esitato a farlo se non prima di aver comprato il biglietto per il treno successivo, così da non rischiare di ridurmi all’ultimo minuto. Ero alla macchinetta automatica quando si è avvicinato un ragazzo. Ero già sull’attenti, perché quelle macchinette sono notoriamente piene di tizi che propongono di aiutarti a fare il biglietto e, mentre ti distraggono, qualcuno da dietro ti sfila lo sfilabile. Ma, una volta giratomi, ho visto che questo ragazzo era diverso dai soliti assalitori: giovane, sui trenta, biondo con gli occhi azzurri, viso pulito e sguardo umile e gentile. Si è avvicinato e con estrema timidezza, quasi vergogna, mi ha chiesto qualche centesimo. Era già la terza persona a cui davo soldi, quella mattina. Ma in questo caso non ho saputo resistere perché, oltre alla gentilezza, su di me ha lavorato il fatto che fosse inequivocabilmente slavo, di certo da qualche paese del nord-est Europa. Oramai sono tarato, cerco e trovo slavi e polacchi ovunque. Li riconosco, i polacchi, come riconosco gli italiani quando sono in viaggio, e provo la stessa sensazione di familiarità (per quanto trovare italiani all’estero in realtà mi infastidisca, in realtà). E mi ha fatto effetto perché non è comune trovare uno slavo non balcanico in giro a chiedere l’elemosina. Sono oramai vent’anni che non ne arrivano quasi più, sono finiti i tempi dei polacchini ai semafori e via dicendo. Gli ho dato qualche spiccio, mi ha ringraziato, ma senza andarsene: aspettava probabilmente che scendesse il resto dalla macchinetta dei biglietti, ma immediatamente è arrivata l’automobilina tipo parco-da-golf colma di carabinieri, e lui è scappato. Mentre riflettevo su di lui, sono uscito dalla stazione per fumare, e mentre preparavo la sigaretta ho sentito, manco a farlo apposta, qualcuno che parlava polacco. Mi sono avvicinato e ho visto che era un barbone (scusate ma non mi abituo all’ipocrita clochard.) sulla sedia a rotelle, che parlava con un ragazzo pieno di cicatrici e dalla faccia sofferente, o disorientata. Mi sono messo a guardarli e ad ascoltarli mentre fumavo, perché questa era la seconda sorpresa della mattinata, per il discorso di cui sopra. Cartoccio di vino in dotazione, il loro business non consisteva nel chiedere soldi, ma sigarette. Ne avevano un sacchetto pieno, stracolmo, e il ragazzo che poteva camminare girava per l’imbocco della stazione a chiederne altre. A me, che fumo il tabacco, ne ha chiesto un po’ per usarlo con la pipa.

Così poi sul treno ho cominciato a pensare, come faccio spesso da un po’ di tempo, sulla questione della mentalità del gruppo di Visegrád, del loro ottuso nazionalismo. Vedere quei due mi ha fatto venire rabbia al pensiero di cosa succede nella loro patria in questo momento. A Cracovia non c’è un immigrato, e di questo vanno fieri. Ma le strade sono piene di ubriaconi, senzatetto, che chiedono l’elemosina. E, guarda un po’, due di loro sono anche qui. Che differenza c’è tra loro e uno dei profughi che premono alle nostre frontiere? Quel ragazzo che mi chiedeva i soldi non scappava da nessuna guerra, eppure è andato in cerca di fortuna altrove. Gli altri due idem, reietti gettati fuori da un sistema che non ammette brutture, che esporta scarti e non ne ammette in ingresso. Ai fieri polacchi, che negano il loro passato che è ancora piuttosto presente di popolo in diaspora, avrei fatto vedere quei tre. Due ragazzi africani che erano in stazione, davanti al siparietto dei due ubriachi alle prese con le loro sigarette, guardavo e sghignazzavano allegramente. Che ironia della sorte, la ruota a quanto pare gira. Mentre il treno va, penso che è proprio vero: ognuno è il negro, il polacco o l’extracomunitario di qualcun altro.

di Simone Cerulli