Femminicidio, quelle aspettative che uccidono

Martina

Venticinque anni  rappresentano quella soglia oltre la quale le persone che ti stanno intorno iniziano ad aspettarsi qualcosa da te. Una porzione minore  degli spettatori della tua vita inizierà a chiedersi quando arriverà il primo posto fisso, quasi nessuno – se sei fortunato sarà, forse, premura esclusiva dei genitori- si ricorderà di chiederti cosa ti fa davvero felice. E avrà la forza di accettare la risposta. Se ti è capitato di venire al mondo donna, poi, dovrai far fronte alle richieste della maggioranza che sono, inevitabilmente ed eternamente, sempre le stesse: il matrimonio ed i figli.

Io ho 25 anni, non ho il posto fisso, non ho un compagno, l’unico vestito bianco in cui sono stata infilata nella mia vita è quello della Comunione e non ambisco ad indossarne di altri. Ritengo i figli un dono, ma credo fermamente che la scelta di poter essere Donna senza essere Madre sia una conquista enorme. No, qui non si parla di me. Non mi sembra un argomento di interesse pubblico. Si parla di quello che ci si aspetta da quelle come me, da tutte noi, dalle donne.

La parola femminicidio non mi è mai piaciuta, non ne comprendevo il senso. Insomma, togliere la vita ad un altro essere vivente è un furto. Il più grande dei furti, è una violenza alla natura, alla sua armonia per la quale anche quella vita spezzata era stata creata. Mi sembrava uno di quegli orrendi neologismi inventati dai giornalisti per essere buttati sulle prime pagine.

Femminicidio, femminicidio, femminicidio. Sui giornali, in televisione, femminicidio. 38 casi, no 59, anzi 58 dal 2016. Si fa confusione sul numero delle vittime, troppe in ogni caso. Mi metto a leggere qua e là e scopro che il termine, nella sua attuale accezione, è stato utilizzato per la prima volta nel 1992 dalla criminologa statunitense Diana Russell nel suo saggio Feminicide: the politics of woman killing ad indicare “l’esito e la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine”. La misoginia, l’odio, giusto. Ma perché l’odio? L’odio generato da cosa? Penso a Sara, a Michela, a Federica e all’innocenza dei 4 anni di suo figlio, penso a Debora e alla sua bambina, penso  a Carla che col corpo ustionato quasi per metà può ritenersi comunque una miracolata. Penso a cosa possa esserci di me in ognuna di queste donne, cerco di immaginare qual è la via che ha condotto a tanto odio verso di loro. Penso alla mia vita e capisco. Le aspettative. Le maledette, ottuse, ridicole, grette aspettative che gli uomini hanno nei confronti delle donne. Quelle aspettative, quelle tradizionali convinzioni ( e convenzioni) che ingorgano la mente dei più. Sì, dei più.

Fermatevi un attimo e provate a chiedervi quante volte avete giudicato una donna perché si è allontanata dalla strada che vi aspettavate percorresse. Quante volte avete usato due pesi e due misure di fronte ad un uomo e ad una donna. Pensate se mai, anche una sola volta, avete creduto giusto, o quantomeno opportuno, che una donna rinunciasse ad un sogno per lasciar spazio al sogno dell’uomo che ha accanto. Pensate a quante volte avete fatto un commento maligno di fronte ad una donna che in cucina non è un granché, che la casa in disordine vabbè, ma che ad una serata a teatro no, non si può rinunciare. Pensate a quanto segretamente, intimamente a molti di voi appaia menomata una donna senza figli, una donna senza marito. La zitella, la sfigata, la zoccola.

Quante volte nella vita siete stati fagocitati da quell’animalesco istinto da maschio alfa? Quanto volte la vostra anatomica differenza vi ha resi convinti di poter possedere, dominare?

Ascoltare le risposte a queste domande mi spaventerebbe.

Non credo, e mi pare quasi sciocco doverlo specificare,  che tutti coloro i quali cadono nell’errore delle solite rassicuranti aspettative siano dei potenziali autori di femminicidi. Credo, però, che porsi determinate domande aiuti a cambiare prospettiva, a comprendere quale seme di cambiamento può gettare ognuno di noi sulla sua strada. Insegnate ai figli, agli alunni che non è una parte del corpo a dettare il nostro destino. Insegnamogli ed insegnamoci a non odiare chi, per libera scelta, si allontana dai parametri che ci insegna la Storia. Insegnamoci a non avere sesso, ad essere come le viole di mare. Semplicemente liberi.

di Martina Annibaldi

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