Serve una svolta, di crescita.

Carlo Faloci

Paolo Gentiloni, ministro degli Esteri del governo Renzi, ha accettato l’incarico di presiedere il governo “Renzi-ombra”, che il Presidente della Repubblica ha dovuto pretendere in tempi brevissimi, per arrivare almeno ad una legge elettorale decente e poi, si spera, ad un voto per un parlamento più rispondente alla realtà del paese.
Il neo premier ha detto che vorrà svolgere il suo compito “con dignità e responsabilità” (non ha però usato i termini “disciplina e onore” dell’art. 54 della Costituzione, quella salvata da 19 milioni di NO).
C’è da temere che anche senza l’ingresso di qualche “verdiniano” sia confermata per il nuovo governo la connotazione di centrodestra, in linea con quella del predecessore. Certamente sotto lo stretto controllo di Renzi (vedi la spergiura Boschi sottosegretaria alla presidenza del consiglio). E con una fragilità anche maggiore (vedi pantomima di Verdini, d’accordo con Renzi?)..
E non è certamente quello di cui il paese ha bisogno.
Non c’è da sperare che il lavoro del neo presidente abbia qualcosa in comune con i suoi lontani trascorsi politici, quando per lui il profitto delle imprese aveva meno importanza del lavoro ai giovani.
Perchè il lavoro ai giovani è una cosa del secolo passato, nel mondo globalizzato della Leopolda.
Anche se nella Costituzione, quella salvata da 19 milioni di NO, è il fondamento (art.1) e un diritto di tutti (art.4).

C’è da ritenere che sia stato proprio il lavoro, la buccia di banana che ha posto un limite, almeno per il momento, alle ambizioni di Matteo Renzi.
Per gli italiani, il lavoro era ed è l’incubo della disoccupazione (al 12,5% quella generale, al 40% quella dei giovani, con l’occupazione delle donne al 46%, contro una media europea del 63%)..
Ma per l’ex premier il lavoro era solo il più zero virgola qualcosa che pure aveva deriso al tempo di Enrico Letta.
Era i soldi alle imprese che li giocavano in borsa o li investivano all’estero. Era il millantare la fine della Salerno-Reggio Calabria o il rilancio del ponte sullo stretto di Messina.
Ma per l’ex premier non è stato, il lavoro, la ricetta unica nei momenti di crisi di uno stato democratico, con forti investimenti pubblici per la sicurezza degli edifici, per la prevenzione delle catastrofi naturali, per la costruzione di case per i più poveri, per l’incentivazione di imprese di innovazione e ricerca.

E gli italiani hanno capito, sono tornati a votare, hanno detto il loro no. Un no forte nelle cifre, senza equivoci. Come ai tempi dei referendum sul divorzio e sull’aborto, come per la legge truffa elettorale del 1953.
E’ stata una dimostrazione di rifiuto di una politica impopolare; e di potere, anzi, di voler contare ancora, nonostante governi non eletti, nonostante leggi elettorali incostituzionali, nonostante incredibili, vergognose manipolazioni dell’informazione.

E non è stato un si a Grillo, o a Salvini, o a Berlusconi, o ai dem dissidenti. E’ stato un no a Renzi ed è stato un si alla nostra Costituzione, che potrà essere migliorata con un consenso maggioritario e ragionato, ma non deve essere manipolata per una pretesa di governabilità o imposta con voti di fiducia contro le convinzioni personali.

C’è da sperare che al più presto si vada al voto. Con programmi di governo chiari e praticabili, non con barricate senza futuro. E possibilmente prima dell’estate, perché le urgenze sono tante e gravi (e magari anche per evitare il vitalizio ai parlamentari di prima nomina, che sono una maggioranza assoluta).
Il prima possibile, soprattutto perché il governo si troverà di fronte ad un problema enorme, quello di affrontare i falsi della legge di stabilità, nella quale figurano sia entrate una tantum (gonfiate e passate per permanenti), sia sforamenti del tetto imposto dall’Unione Europea (mascherati da interventi per il terremoto e per l’accoglienza immigrati e in realtà dovuti a spese correnti).

E c’è da pensare, anche, come per il futuro sia possibile garantire la rispondenza tra elettori ed eletti, con una legge elettorale seria. Perché nell’attuale parlamento le manipolazioni sono state incredibili.
Così, la metà dei senatori M5S (18 su 36) che pure erano stati candidati con primarie on line, ha abbandonato il movimento.
Così, la grande maggioranza dei parlamentari Pd, agli ordini del segretario-premier-pensiero unico, ha votato in parlamento cose non presenti nel programma o addirittura opposte ai contenuti (vedi Job’s Act).
Così, parlamentari della coalizione di centrodestra eletti contro quella “Italia-BeneComune” di Bersani sono passati al nemico (Alfano, Verdini, Lupi, etc) e gli hanno garantito la maggioranza.
Forse una soluzione potrebbe passare attraverso collegi uninominali e decadimento (con nuove elezioni di collegio) dei voltagabbana.

Vedremo. Con pochissime speranze. Anzi, nessuna. Non ci sono le condizioni minime per qualche speranza per i più deboli, i più sfruttati, gli esclusi.
Perché servirebbe almeno una svolta, di crescita. C’è chi lo ha detto: ”Questo paese ha bisogno di risposte concrete a problemi reali, l’indebolimento del ceto medio, i troppi che restano indietro senza lavoro e senza speranza, un dualismo che si allarga e segna solchi, civili prima ancora che economico, tra le due Italie, povertà e disuguaglianze diffuse.”
No, non sono parole di papa Francesco, ma del direttore de “Il Sole 24 ore”, Roberto Napoletano.

di Carlo Faloci

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