Il giorno più bello per vivere e crepare

L’assunto del film è semplice: due malati terminali in fuga dall’ospedale nel quale non resta loro che attendere passivamente l’inesorabile fine. In fuga dalla Germania super attrezzata clinicamente verso l’Africa nuda di protesi ma ricca d’avventura paesaggistica e umana. Una specie di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, giocato però in chiave di commedia e non sul lato del male psichiatrico ma fisico, organico. Cosa hanno i due da perdere se non le catene, i cateteri, i tubi della loro quanto mai vicina e certa morte? Così il film diventa un comico e commovente road movie su cosa avranno invece i due da guadagnare nel loro travolgente quanto sconquassato viaggio. Il genere è quello del cosiddetto buddy-buddy, ossia della vicinanza forzata di due personalità opposte, conflittuali tra loro. Andi è un pianista classico, che sta postando in rete le tappe quotidiane del suo male terminale ma ignorato da tutti. Benno è uno che vive di espedienti, furti, raggiri: finito in ospedale per una caduta mentre fugge dalla polizia scopre di avere un inguaribile cancro al palato.

Il film risente un po’ dell’imperativo che gli autori si sono posti nel trovare a tutti i costi situazioni strambe e inaspettate in cui i due s’imbattano a ogni cambio di scena e d’avventura negli stupendi paesaggi africani ottimamente fotografati. Un’altra cosa sembra, però, avere più importanza del giudizio e coinvolgimento emotivo che ognuno potrà personalmente trarre da questo film. È la visione della morte che esso consciamente o inconsciamente fa scorrere sullo schermo. Fa cioè scorrere nei nostri occhi e nella nostra coscienza.

Il buddy-buddy cinematografico di cui parlavamo prima è infatti un buddy-buddy anche esistenziale che – passando sempre attraverso i due protagonisti in opposizione – diventa anche un doppio impulso in contrasto che scorre lungo tutta la narrazione e le immagini. Da una parte l’impulso a ribellarsi all’idea stessa di morte, a non accettarla, darla per scontata, cercare un’evasione da essa, come da un carcere mentale di massima sicurezza. Carcere cui ci condanna una visione, una fede, ossia un film proiettato dentro di noi da un’intera civiltà – la nostra – a partire dalla religione, la filosofia, la scienza, giù giù fino alla pratica della cura sanitaria e della degenza clinica. Dall’altra la resa all’inesorabilità della prigione, l’evasione dalla quale è sola provvisoria, perché non si fugge da quella più profonda interiorità sotterranea che è nell’individuo il sedimento di tutto un film, un fiume, ossia il corso storico culturale che gli si è depositato dentro. Nello stesso tempo, però, l’evasione, la fuga – per quanto momentanea – squarcia dei bagliori di luce improvvisi e felici oltre il muro di quel vecchio carcere.

di Riccardo Tavani

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