Il “Che” Guevara per uno dell’altro secolo
Ad uno dell’altro secolo come me, fa tristezza, ed anche un po’ di rabbia, vedere in giro gioventù con il ritratto del “Che” sulle magliette, magari anche con frasi delle quali esistono su Internet apposite raccolte …
Fa tristezza, vedere giovani di destra o di sinistra, indifferentemente, usarne l’effige come un oggetto di mercato al posto di Totti o di Valentino Rossi. Ed anche rabbia, a vedere gli stessi giovani subire senza reagire una società che non dà loro lavoro e li considera solo come soggetti-oggetti consumatori.
Certamente, non è colpa loro se del novecento si fa loro conoscere solo l’allunaggio del luglio 1969 e la caduta del muro di Berlino del novembre 1989.
Ma è singolare che pochissimo si parli dei giorni nei quali si ebbero grandi trasformazioni per quasi tre miliardi di persone, metà della popolazione del pianeta, con l’indipendenza dell’India (1947) e la nascita della Repubblica Popolare Cinese (1949).
Per me è diverso, ricordo i drammatici resoconti radio sulle migrazioni di milioni di persone tra il Pakistan islamico e l’India.
Ricordo i commenti preoccupati sulle sconfitte dei nazionalisti di Kiang Kai-shek ad opera dei comunisti di Mao Tse Tung in Cina.
Ricordo le notizie sempre più allarmate (per 15 anni, fino al 1975) delle guerre che nel Vietnam (già Indocina) sotto la guida di Ho Chi Minh e del generale Giap portarono alla cacciata dei francesi e poi alla sconfitta-ritirata degli americani.
E ricordo le considerazioni sulla liberazione di Cuba, prima favorevoli per la lotta delle formazioni di Fidel Castro e di “Che” Guevara contro il dittatore Batista, poi via via più preoccupate per il non allineamento di Fidel Castro alle pressioni americane. Infine, decisamente ostili, dopo la fallita invasione, fomentata dalla Cia, alla Baia dei Porci.
Mao Tse Tung, Giap, Ho Chi Minh, Fidel Castro. Tutti con movimenti rivoluzionari, tutti con lotte armate per la liberazione dei loro paesi.
Ma Ernesto “Che” Guevara era diverso. Non era solo argentino, non era solo cubano. Era un combattente latino-americano, era un cittadino del mondo, era pronto a lottare contro le ingiustizie, ovunque sulla terra.
E’ noto un suo discorso all’Onu, nel 1964, come ministro dell’industria di Cuba. Un discorso contro le pretese di controllo, da parte Usa, del territorio cubano. In esso portò lo sdegno del popolo contro le pretese americane di imporre ai paesi più deboli regole di controllo degli armamenti e violazione dello spazio aereo che mai gli Usa avrebbero accettato per sé.
Ma non parlò solo per Cuba. Salutò i nuovi paesi che entravano all’Onu, invitandoli ad entrare nel gruppo delle nazioni non allineate che combattono l’imperialismo, il colonialismo e il neocolonialismo; auspicò una nuova organizzazione del continente americano, che raccogliesse le richieste e le proteste delle popolazioni contro le aggressioni Usa, per le quali erano disposte a lottare, con il grido di “Patria o morte”.
Era un borghese argentino, che doveva fare il medico. Ma a ventidue anni viaggiando in moto per tutto il continente latino-americano, vide cose che lo trasformarono. Sentì di dover fare qualcosa. Non poteva ignorarle.
Vide lo sfruttamento, la miseria, il razzismo nei vari paesi, a fronte delle sterminate ricchezze dei potenti e della prepotente presenza delle multinazionali in ogni campo, dalle miniere di rame alle coltivazioni di banane.
Vide scuole che lasciavano nell’ignoranza i figli della povera gente e che curavano in ogni aspetto i figli dei ricchi, per abituarli al comando.
Vide una sanità riservata agli abbienti e una mortalità terribile senza cure nell’infanzia, nella povera gente.
E decise che doveva fare qualcosa di più del medico, naturalmente si orientò verso il marxismo.
La sua ammirazione per Gandhi non lo convinse però di praticare la non-violenza dalle sue parti. Sentì la necessità, per i popoli latino-americani, di una rivoluzione, di una lotta armata per la liberazione. E sperò anche nel sogno di Bolivar, nel sogno di sempre, negli Stati uniti latino-americani.
Era nel Guatemala, a ventisei anni, quando un colpo di stato, finanziato ed armato dalla CIA, impose un governo antipopolare, filoamericano. E il Che iniziò lì la sua vita di guerrigliero, di rivoluzionario.
Poi Cuba con Fidel Castro, la guerriglia, la vittoria, la collaborazione al governo come ministro dell’industria.
Ma non bastava, non poteva bastare, al Che, il socialismo in un solo paese. Lasciò Cuba, andò in Cina, poi in Africa, Egitto, Algeria, Congo. Dovunque prendeva contatto con i movimenti di lotta, si avvicinava alle posizioni cinesi, scriveva libri con le sue convinzioni: nel mondo non ci sono frontiere, la lotta contro l’imperialismo è una lotta di tutti come di tutti è ogni vittoria ed ogni sconfitta.
Per quello nel 1965 guidò una spedizione cubana nel Congo, dove 4 anni prima era morto Patrice Lumumba, vittima dell’amore per il suo popolo che voleva portare su posizioni socialiste, combattute dagli ex padroni belgi. Non fu una spedizione felice, il Che era ormai un obbiettivo da colpire, ancora la C.I.A. ed esuli cubani contribuirono al fallimento del tentativo.
Due anni dopo, in Bolivia, la fine. Va a sostegno di un’improbabile tentativo rivoluzionario locale, il suo gruppo è decimato, viene preso prigioniero, poi viene assassinato. Da carcerato, qualcuno pensò, sarebbe stato più pericoloso che da morto.
Poi, nel maggio francese, nel sessantotto italiano, il ricordo. Del suo impegno rivoluzionario, della sua dedizione. Soprattutto, del suo internazionalismo, del sentire tue le sofferenze, le richieste di aiuto da parte degli oppressi, delle vittime in tutto il mondo.
Infine il mito, la esaltazione mediatica, le magliette.
Ma anche una presenza di speranza. In tutti gli stati dell’America Latina, nel Brasile di Lula e di Vilma Roussef, nell’Uruguay di Josè Mujica, nel Venezuela di Chàvez, nell’Argentina di Kirchner, nel Cile di Allende c’è la consapevolezza di cose giuste da attuare, di diritti da conseguire. Come le pensava il Che.
Da fare ora, subito. Anche se forse non con la violenza rivoluzionaria.
Ma certamente con una rivoluzione, quella dell’amore.
Quella di Francesco, un uomo che viene dalla fine del mondo.
Un uomo latino-americano.
di Carlo Faloci