Shoah, dalla tragedia alla speranza.

C’è un cimitero ebraico nel mio paese. Quando ero bambina e i confini geografici del mio mondo non superavano i quattro lati della piazza coi portici dove abitavo, i miei compagni di scuola si davano appuntamento altrove, andavano a giocare al “cimitero degli ebrei”. Allora era un luogo fuori mano, abbandonato.

Milletrecentocinquanta metri quadrati di terra chiusi da un muro, pochissime lapidi rimaste, tutte esposte ad est. Il paese- crescendo- non l’ha dimenticato, l’ha rimesso a posto e ne ha fatto un monumento alle nostre paure, al razzismo. La comunità ebraica da tempo non c’è più, il ghetto raso al suolo ha lasciato il posto a una piazza, dov’era la sinagoga c’è un ristorante: il cimitero invece è ancora là, in silenzio, in ordine, aperto ogni anno nel “giorno della memoria”. L’erba tagliata bene, qualche pietra, una targa, quattro muri e un cancello: la memoria è fatta anche di luoghi, quelli che ci obbligano a rileggere la nostra storia sì con una vertigine di sensi di colpa, ma anche con un filo di speranza.

Chissà cosa avranno pensato i miei compaesani negli anni 40, quando sono state applicate le leggi razziali, quando le deportazioni hanno rubato intere famiglie, per non restituirle più, quando a trenta chilometri da qui, a Fossoli, c’era gente sterminata nel campo di concentramento. Forse si saranno sentiti estranei, impotenti, forse si saranno sentiti distanti. Forse si saranno sentiti come oggi ci sentiamo noi davanti alle stragi del Mediterraneo, che in pochi anni hanno reclamato le vite di migliaia di esseri umani.

“Ben povera memoria quella che funziona solo all’indietro”

I luoghi della memoria sono ormai soltanto la rappresentazione della tragedia, delle stragi, dell’indifferenza, dei distinguo, dell’ignoranza. Ma li conserviamo con cura perché servono a darci speranza. La speranza di riuscire a capire, di poter sopravvivere, di sapere immaginare un futuro nonostante tutto, anche quando le situazioni sono le più sfavorevoli e i rischi sono più grandi, anche quando -come oggi- l’antifascismo si va stemperando e gli istinti razzisti digrignano i denti.

La memoria di quello che è stato serve ad alimentare la consapevolezza che oggi non siamo impotenti di fronte ai sacrifici umani richiesti dalle nostre frontiere. Che c’è ancora qualcosa da dire, qualcosa da fare, che c’è ancora margine per costruire una società decente, una società buona da vivere in cui le persone non vengano umiliate. L’umiliazione -dai campi di concentramento nazisti di ieri alle prigioni libiche di oggi, dal CARA di Mineo ai centri di detenzione e di espulsione dei migranti, dalle tende di Idomeni alla Jungle di Dunkerque- è distruttiva dell’onore e del rispetto delle persone. L’umiliazione è un modo per escluderle, per considerarle non umane.

di Daniela Baroncini

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