La forma divina dell’8 marzo

The Shape of Water (La Forma dell’Acqua): due ore di film senza mai un fotogramma sbagliato o meramente superfluo. Un’opera che parla della condizione femminile, della sua diversità, sensibilità, visionarietà oltre l’oppressione degli orinatoi maschili quanto, se non più di un film di impegno politico e di matrice storico-realistica. Ce ne parla, infatti, attraverso l’arte, quell’arte dell’immagine che si chiama cinema. Il cinema con la sua capacità di mostrare, di porre in forma scenica un passato che ci si infila nei pensieri, nella sensibilità, ossia nel fiore più delicato della pelle e della speranza sotto l’aspetto del presente. Al punto che più meticolosamente si ricostruisce il cliché dell’immaginario americano anni ’60, più lo si restituisce nella forma di un’estetica esistenziale quotidiana – attraverso canzoni, melodie, balli, trasmissioni tv, automobili, negozi di torte in franchising –, più si parla di due infime donne schiacciate dentro quell’atmosfera di spinta al consumismo terrestre e di corsa ai voli spaziali, entrambe forsennate, più si sta parlando della condizione femminile dell’oggi. Perché? Perché la logica maschile della dignità umana resta sempre quella che il generale Hoyt spiattella in faccia al pur perfido Strickland: “C’è solo la dignità di non commettere mai un errore con me, perché un altro tipo di dignità la farà pentire anche di essere nato”. E questa rimane ancora oggi la struttura del potere maschile nell’apparato tecnico e politico di uno Stato, di quello patriarcale sulla donna, sulla famiglia. Proprio a casa, a letto vediamo all’opera lo spietato Strickland, l’uomo che piscia con le mani sui fianchi. Mani che si lava solo una volta, all’inizio, non dopo, perché, dice a Elisa e Zelda: “L’uomo che se le lava due volte è un debole”. Lo vediamo fare l’amore, intimando alla moglie di stare zitta, di non dire niente, mentre lui la perfora meccanicamente, lasciandola sola là sotto di lui, pensando più all’eros dell’auto nuova che vuole acquistare che a lei.

Sola, zitta, muta come lo è Elisa, la cui mancanza di parola è il simbolo stesso della negazione dell’ascolto cui continua a essere condannata la voce delle donne. Negazione attuata non tanto alla superficie della società, quanto nel sottosuolo occulto del potere, dove si decide veramente ciò che conta, proprio come in quel laboratorio scientifico segreto in cui si svolge la vicenda. In questa lotta di riscatto – anche contro il ricatto sessuale manifestato dal boss – Elisa scopre improvvisamente il suo 8 marzo. Un 8 marzo che non finisce, però, quando le lancette degli orologi toccano la mezzanotte ed entrano nella successiva, incessante quotidianità delle sveglie che suonano, delle colazioni da preparare, dei cartellini da timbrare, dei cessi da lustrare. “Ci sono schizzi fino al soffitto” dice Zelda a Elisa, mentre passano stracci e strofinacci sui pavimenti e i lavandini nei bagni maschili. L’8 marzo della protagonista attinge alle profondità più abissali della nostra esistenza. Raggiunge una profondità oceanica ancestrale, un’origine ontologica sempre in atto, perché sorpassa il tempo, abolisce il passato, il presente, il futuro. Un’origine che continua ad affiorare in noi ma che la logica militare-strumentale maschile non può fare a meno di schiacciare, vivisezionare, negare, eliminare come diversità non omologabile, conformabile alla sua volontà di potere e conquista. In quanto lei stessa personificazione di una diversità collettiva negata, soggiogata – quella femminile –, Elisa abbraccia tutta la diversità possibile. Abbraccia la forma dell’acqua che può assumere tutte le altre forme possibili in cui può essere contenuta. Si immerge in quella che appare come una mostruosità vivente, che in realtà non è che un’origine sepolta. Sepolta nelle acque fluviali dei Tropici più remoti della nostra geografia mentale. L’umano aborigeno da cui riemerge la sente, la rispetta come divina, ma solo perché non vede, è impedito ancora oggi alla nostra civiltà di percepire che quel divino permane immutato giù nel buio oceanico delle nostre viscere fisiche e psichiche. È come una flebile luce pulsante che solo a tratti ma persistentemente continua ad apparirci. È questo baluginante 8 marzo senza fine che improvvisamente Elisa ricorda, riconosce per tutti noi. All’apice della sua drammatica lotta di donna lo pronuncia, lo fa apparire sullo schermo di quel cinema semideserto che è proprio sotto il pavimento della sua casa, ossia della nostra coscienza di spettatori rimasti appesi al fiato sospeso dell’esistenza.

di Riccardo Tavani

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