La sentenza e le sue conseguenze del processo Borsellino quater. La strage di via D’Amelio.

In via Mariano D’Amelio, a Palermo, il 19 luglio 1992, in una terribile esplosione, furono uccisi il giudice Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta. In quella strage unico sopravvissuto fu Antonio Vullo, che nonostante fosse anche lui di scorta al giudice, essendo impegnato, in quell’istante, nel parcheggio dell’auto, per caso ebbe salva la vita. Non era sicuramente nelle intenzioni degli assassini che qualcuno potesse sopravvivere. Borsellino doveva morire e, con lui, chiunque gli si fosse trovato vicino per difenderlo, per amore, per il fato. Tutti dovevano fare la stessa fine, dilaniati dall’esplosione. Il fumo che salì al cielo e le fiamme dei veicoli bruciati, la strada distrutta in uno scenario di guerra, restarono fissati indelebilmente in fotogrammi di memoria.
Il depistaggio sulla strage iniziò, secondo quanto si può finalmente intendere, immediatamente dopo l’esplosione.
Si cercò sin da subito l’agenda rossa che Borsellino portava con sé, appuntandovi nomi, pensieri, indicazioni su indagini. A lungo si sostenne che quell’agenda non era sul luogo dell’attentato o, addirittura, che non era mai esistita. Per anni la moglie, i figli, il fratello del giudice, hanno insistito affinché si facesse luce sulla misteriosa volatilizzazione di quella preziosa agenda. Per anni Agnese Borsellino ha continuato a raccontare quanto le era stato detto dal marito nei giorni precedenti la morte: la mafia lo avrebbe ucciso perché altri lo avrebbero consentito.
Nella motivazioni della sentenza con cui si è chiuso il processo Borsellino quater si ricostruiscono, finalmente, i contorni di quel depistaggio messo in atto da uomini appartenenti alle istituzioni. L’attenzione si concentra su La Barbera, morto nel 2002, e su tre poliziotti suoi collaboratori.
La Barbera, che fu anche un uomo dei servizi segreti con il nome di Catullo, è stato colui che, incaricato di coordinare le indagini sulle stragi di Capaci e via D’Amelio, aveva ritenuto inutile ascoltare le indicazioni dei familiari di Borsellino quando questi affermavano che si dovesse identificare chi avesse fatto sparire, subito dopo l’attentato, l’agenda su cui, in particolare nei giorni precedenti la morte, pare che il giudice avesse appuntato nomi e situazioni da riferire ai giudici di Caltanissetta.
Una sentenza importante con la quale chiaramente si afferma sia l’estraneità ai fatti di Vincenzo Scarantino, falso collaboratore di giustizia creato per sviare, sia (in un evidente riallaccio con il riconoscimento della trattativa Stato Mafia) il coinvolgimento nel depistaggio di soggetti degli organi istituzionali.
Venticinque anni dopo si riconosce la necessità di cercare la verità sui soggetti coinvolti nell’uccisione dei due magistrati con una decisione che oggi sembrerebbe aprire spazi nuovi per poter far luce su uno dei depistamenti più eclatanti di questa Italia di mafie, di corrotti, di pezzi dello Stato che hanno dialogato con i boss di Cosa Nostra, scendendo a patti.
Chi non ha voluto che si facesse luce su quegli avvenimenti, creando un paravento di fatti verosimili, che potessero accontentare, nell’immediato, il desiderio di giustizia della gente, oggi sta vedendo crollare quel castello di falsità. Dobbiamo solo augurarci che si possa andare fino in fondo.

di Patrizia Vindigni

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