Il lotto 285 – capitolo diciannovesimo

“Cessate d’uccidere i morti,

Non gridate più, non gridate

Se li volete ancora udire,

Se sperate di non perire.

Hanno l’impercettibile sussurro.

Non fanno più rumore

Del crescere dell’erba,

Lieta dove non passa l’uomo.”

Giuseppe Ungaretti  – Il Dolore

A un certo punto le sirene dell’allarme aereo smisero di dilaniare l’aria e sopraggiunse un rombare sordo che a stento si percepiva in quel rifugio protetto da tonnellate di cemento e marmo nel quale ci trovavamo. Pensai che, probabilmente, l’attacco era stato rivolto verso altri obiettivi che non la parte sud della capitale, o che i velivoli avevano sorvolato la città in ricognizione o erano stati destinati a trasporti. E poi non si era udito alcuno scoppio di bombe né si era verificato alcuno spostamento d’aria. Uscendo dal laboratorio di gessi ed avendo percorso una serie di corridoi e rampe di scale ci trovammo di nuovo all’aperto. Guardando in alto il cielo era limpido, né si sentivano i colpi né si vedevano gli sbuffi di fumo dei cannoni di contraerea piazzati nella campagna intorno alla città.

Eravamo vicini all’imbrunire quando decidemmo di recarci alla vicina caserma dell’Aeronautica, dove lui, in quanto aviere, poteva introdursi e io al suo seguito. Così mi accinsi  di nuovo a trascorrere una notte in una caserma, ma questa volta i miei vicini di branda non avrebbero certo avuto l’aspetto femminile come quello che avevo percepito, assieme al sentore di profumo misto a sudore, nel collegio delle ausiliarie. Ci sedemmo sui gradini dell’ingresso che portava alle camerate, con un occhio al corpo di guardia dove la sentinella sonnecchiava appoggiata al muro. L’aria, in quel rosso tramonto di ottobre,  era fresca e profumata dall’odore dei gelsomini che si arrampicavano sull’orlo dei muri di cinta, così, di buon animo, cominciai a raccontare al mio vicino la mia storia più recente:

“Avevo preso, da giovane, il diploma di scuola commerciale, spinto dai parenti che gestivano vari negozi e che vedevano in me un loro possibile successore, anche se reticente, visti i  miei interessi che si rivolgevano verso tutt’altri campi. Potevo comunque insegnare nelle scuole medie, ma non esercitavo, sia  perché ebreo (anche se solo da parte di padre), sia perché andai presto militare, durante il cui servizio mi ammalai di tifo e quindi, dopo essere guarito ed avendo fatto una lunga convalescenza, fui esentato dall’essere spedito al fronte, che in quel momento poteva essere l’Africa, i Balcani o la Grecia.

Rispedito a casa ed essendo in cerca di lavoro, mi arrangiai a dare ripetizioni di scienze alle studentesse del ginnasio, io che ero più grande di loro solo di qualche anno. Le prime con cui entrai in contatto erano due ragazze di buona famiglia, le quali mi avevano preso in simpatia anche se ignoravano il mio impegno antifascista. Le andavo a trovare per la lezione nel palazzo che allora era la Residenza del Re sul colle Quirinale e, quindi, ero continuamente controllato da uscieri, segretari e gendarmi, cosa che mi aspettavo essendo io soltanto un giovane e sconosciuto borghese. Ben presto, però, mi innamorai di una delle due, forse non la più carina, ma quella che era più disponibile alle mie “avances”, il che fece sì  che, dopo qualche settimana idilliaca, fossi invitato dai suoi genitori a lasciare l’incarico.

 Successivamente detti ripetizioni ad una ragazza del liceo. Era molto graziosa, aveva un viso paffuto, guance sporgenti, occhi neri penetranti e folti capelli corvini. Frequentando la sua casa fui accolto subito nella sua famiglia, padre (o patrigno, come avrei scoperto dopo), madre e una sorellina più piccola. Mi raccontò che il padre era morto giovanissimo in un incidente aereo. Dopo una breve frequentazione (io spesso l’andavo a prendere all’uscita della scuola) arrivammo ad una sorta di fidanzamento, anche se, né io né lei, sapevamo fino in fondo il significato di quella parola. Diventammo così più intimi, anche se parlavamo soltanto di letteratura e filosofia. Facemmo all’amore una sola volta, frettolosamente e furtivamente, su uno scomodo letto in  un alloggio di fortuna, alla presenza di un’ospite straniera che dormiva (o faceva finta di dormire) nell’altro letto. Finito il liceo lei si trasferì al nord per iscriversi all’università. Rimanemmo in contatto per qualche tempo, scrivendoci lettere appassionate (più da parte sua che da parte mia), ci mandammo testi di canzoni di artisti che amavamo entrambi, poi più nulla.

L’avrei rincontrata ad una conferenza, tanti anni dopo, con lo stesso sorriso velato, gli stessi zigomi sporgenti, gli stessi occhi indagatori e scintillanti. Sarebbe potuto rinascere, oltre alla simpatia reciproca, qualcosa di più tenero e sentimentale, ma il nostro rapporto sarebbe rimasto confinato nell’ambito della letteratura e della filosofia.

(Devo dire che il sogno, che costituisce l’inizio di questo racconto, mi è stato ispirato proprio da questa persona e che quindi la figura femminile di cui sono alla ricerca durante la narrazione, così come l’emblematico Lotto 285, sono proiezioni della mia fantasia, pur essendo, o essendo state, due entità autentiche, ancorché diverse e separate, nel prosieguo della  narrazione.)

In seguito conobbi ad un concerto una giovane donna che mi affascinò per la sua risolutezza e sprezzo del pericolo, che mi avrebbe seguito nell’organizzazione dei gruppi armati, e che avrei sposato e che mi sarebbe stata fedele compagna per tutta la vita.”

Finito che ebbi di raccontare il mio “viaggio sentimentale”, il resto del quale l’aviere aveva avuto già modo di conoscere, almeno nelle sue ultime fasi, mi rivolsi di nuovo a lui per chiedergli di raccontarmi, visto che eravamo stati interrotti dalle sirene della presunta incursione aerea, l’esito della sua storia, che mi sembrava interessante, anche se ne sospettavo una tragica conclusione. Ma egli si alzò a sedere e con un gesto di diniego mi fece capire che non gli andava di rivelarmi, almeno per il momento, la fine di quella storia. Io accettai, mio malgrado, la sua esitazione ed alzandomi anch’io, decidemmo, essendo la notte già alta, di ritirarci, devo dire con una certa trepidazione, ognuno nella sua branda e cercare di dormire un poco, pensando ai nuovi compiti che avremmo dovuto assumerci l’indomani.

La caserma sembrava un luogo sicuro essendo i militari, avieri ed ufficiali, rimasti fedeli al Re e all’esercito che si stava riorganizzando, anche se il nemico aveva già requisito parecchie postazioni militari e passato per le armi, o deportati, gli eroici resistenti. Anzi in alcune zone della periferia, c’era stata battaglia a difesa dei tre Forti alle porte della capitale, cui avevano partecipato anche folti gruppi di civili che abitavano nelle vicinanze. Interi quartieri  avevano respinto l’avanzata delle truppe avversarie, facendo affidamento sulla conformazione di quelle borgate, difese come erano da alti muri, da inferriate, cancelli, stretti vicoli, che rendevano difficile l’accesso ai Lotti, come venivano chiamati i raggruppamenti di case che, costruite come una fortezza, ne rendevano arduo l’accesso.

Ma il mio disegno era quello di riuscire ad impadronirmi dei mitra e delle munizioni che certamente si trovavano nell’armeria sottostante. Svegliai quindi l’aviere che già era caduto nelle braccia di Morfeo e gli esposi il mio piano. A quell’ora di notte i panettieri sarebbero stati già al lavoro nelle loro botteghe. Ne avevamo uno proprio all’inizio della strada che conduceva alla caserma. Avremmo chiesto che ci fossero prestate due biciclette che di solito usano i cascherini per le consegne, le quali avevano sul retro un ampio contenitore di vimini. Avutele, avremmo caricato le armi in quei capienti bagagliai e ci saremmo diretti al vicino cimitero, che aveva ancora i cancelli divelti e quindi di facile accesso. Avremmo  scelto le tombe scoperchiate dalle bombe dove le ossa dei vecchi cadaveri fossero già state asportate e depositate nell’ossario comune. Avremmo avuto quindi a disposizione diverse ampie fosse rettangolari scavate nella terra, dove avremmo potuto nascondere le armi e coprirle con le lapidi cadute. Quel piano ingegnoso riscosse l’approvazione del mio sodale ed, essendo la notte buia e senza stelle, sgattaiolando via dalla caserma senza essere visti, portandoci sulle spalle quante più armi e munizioni potevamo,  riuscimmo in poco tempo a concludere la nostra missione.

 

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