Alienazione genitoriale: è reato mettere contro i figli nella separazione

L’alienazione genitoriale rappresenta un preoccupante problema sociale e di salute pubblica , abuso sull’infanzia e violenza psicologica su adulti e minori che coinvolge ogni anno migliaia di persone tra vittime dirette e vittime di rimbalzo.

Vicende dolorose travalicano le mura dei palazzi di giustizia ed ogni disquisizione scientifica sul piano clinico o giuridico e sempre più spesso arrivano all’attenzione dell’opinione pubblica perché la sete di giustizia sta diventando intollerabile per coloro che vedono pregiudicati i loro diritti.

L’alienazione parentale è un reato : mettere contro i figli nei casi di separazione o divorzio può causare nocumento ai minori, oltre a una condanna per comportamento illecito.  E’ quanto ha rilevato l’autorevole Sezione famiglia del tribunale di Milano (Trib. Milano, IX civ., decreto 9 – 11 marzo 2017, Pres. Amato).

Per alienazione parentale i giudici del Tribunale di Milano hanno inteso una serie di comportamenti scorretti che un coniuge attua, al fine abietto di mettere i figli contro il coniuge non affidatario, anche surrettiziamente bypassando il ruolo e l’autorità o credibilità dell’altro. Consiste precisamente nella condotta finalizzata alla cancellazione, rimozione, demolizione di un genitore, quasi sempre compiuto dall’altro genitore, autore di una subdola campagna denigratoria, unitamente ad una machiavellica manipolazione del minore, che conduce alla radicale emarginazione del genitore ”alienato” : condotta abusiva e con connotati penali che va tenuta distinta dalla patologia, etichettata con il termine di “PAS” (“Parental Alienation Syndrome”) o sindrome da alienazione genitoriale, quale possibile forma morbosa conseguente, i cui tratti sintomatici sono enucleati nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, il Dsm-V.

La separazione dei genitori è un trauma troppo doloroso per i figli, ancor più se a seguito della disgregazione dell’unione s’innescano dinamiche relazionali disfunzionali in cui i diversi ruoli appaiono rigidi e bloccati. L’alienazione parentale che può scaturirne, come esercizio alterato della genitorialità, può generare effetti devastanti sull’identità stessa dei figli, infliggendo agli stessi lacerazioni sentimentali e ferite invisibili che si porteranno dentro per il resto della vita, sgretolando certezze e destrutturando ogni equilibrio, col grave rischio di sedimentazione di problematiche di interesse psicopatologico e psichiatrico nell’adolescenza e nell’età adulta.

Il caso specifico affrontato dal Tribunale è di una donna che emarginava “intenzionalmente” l’ex marito dalla figlia.

Il caso di separazione  assunto a vaglio è quello di una madre che è riuscita a convincere la figlia di non aver bisogno di un rapporto col padre, anzi di rifiutarlo totalmente, dipingendo l’ex marito come un uomo senza alcun aspetto positivo. Laddove il diritto alla bigenitorialità imporrebbe di preservare l’altra figura genitoriale e farsi garanti di un rapporto sereno e costante coi figli, retrocedendo da ogni pernicioso quotidiano stillicidio.

Orbene, il rifiuto della figlia ha portato l’uomo a richiedere delle perizie tecniche di psicologi e assistenti sociali, che hanno rilevato l’azione lesiva e volontaria sul rapporto tra padre e figlia della madre, autrice di un vero e proprio reato di alienazione.

I comportamenti alienanti della madre in seguito alla separazione dal marito hanno portato i giudici a ritenere addirittura inadeguato l’affidamento alla donna, imponendo che la figlia fosse ospitata dalle strutture istituzionali del Comune di residenza.

Nel caso di specie, il reato di alienazione non ha avuto solo ripercussioni legali nei riguardi della donna, ma ha prodotto effetti determinanti sulle relazioni sociali della figlia verso il genitore alienante.

I giudici di Milano dopo aver accertato l’alienazione genitoriale compiuta dalla madre in danno della figlia e del padre, pervengono alla “limitazione della responsabilità genitoriale quanto alle decisioni di maggior interesse”, rigettano il ricorso di costei e la condannano per abuso del processo, riconoscendo altresì “un danno in capo al padre: lo stress che lui accusa è legato alla privazione del rapporto”.

Dalle risultanze della espletata perizia tecnica, emerge che la figlia, nel riportare i fatti, aderisce dogmaticamente in maniera totale alla versione materna, finendo per distorcere anche il dato reale. La bambina assume acriticamente come proprio il pensiero materno travisato ed esternalizzato attraverso un indottrinamento caratterizzato dalla prospettazione di un’unica chiave di lettura, atta ad attribuire al padre ogni colpa, escludendo la madre da ogni responsabilità ed implicazioni personali nel fallimento del progetto di coppia. A sostegno di questa prospettiva, vengono attribuite al padre modalità comportamentali solo riferibili alla categoria dell’aggressività, nel tentativo di renderlo inammissibile agli occhi della figlia.

La consulenza psico-diagnostica ha chiaramente accertato che la madre, ponendo in essere un contegno denigratorio nei confronti della figura paterna, addirittura la porta alla convinzione di esclude che la figlia possa trarre vantaggi o elementi positivi dal padre. Ciò al fine evidente di emarginare e neutralizzare l’altra figura genitoriale. I comportamenti della madre evidentemente orientati ad inficiare la relazione tra figlia e papà hanno generato uno stato di forte stress nel padre, oltreché una situazione di pericolosa vulnerabilità nella minore, che si trova sull’orlo di una declinazione patologica della propria condizione di bambina travolta dal conflitto. E il contegno accertato è risultato etiologicamente collegato alle patologie e ai danni scientificamente asseverati.

Il tribunale chiarisce nelle sue motivazioni che non affida la figlia al padre solo perché ora soggetto fragile (“questi accusa una fragilità emotiva su cui deve intervenire”), ma anche perché la figlia oggi non sarebbe pronta ad “accoglierlo” (“ la bambina al momento non ha superato la condizione di disagio in cui versa e per la quale lo rifiuta”). Tuttavia sottolinea la necessità che la bambina sia immediatamente seguita in una terapia di sostegno psicologico.

Anche la dottrina è concorde nel ritenere opportuno che il minore alienato debba essere subito sottratto dal genitore alienante, seppur riavvicinandolo gradualmente al genitore alienato. Così come si ritiene necessario imporre alla madre alienante un percorso terapeutico e rieducativo finalizzato ad accettare positivamente la figura genitoriale ed il ruolo del “padre”,  tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena.

L’importanza di adottare le opportune precauzioni e le misure necessarie, scaturisce dalle recenti sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per garantire il diritto del minore alla bigenitorialità e tutelarlo dagli ostacoli che lo possono minacciare.  Ma vi è di più. La lente viene spostata su un nuovo punto di vista, la proprietà spaziale della posizione da cui si osservano e rappresentano le cose : quella del figlio e di come questi percepisce se stesso, il padre e la madre nella nuova condizione di famiglia divisa.

Ciò in quanto tali comportamenti influenzano non solo e non tanto il diritto del minore alla bigenitorialità, conquista indiscussa ed indiscutibile della attuale normativa europea e nazionale, quanto piuttosto il suo diritto ad una crescita il più possibile serena ed equilibrata: si pensi a quanto possa incidere un comportamento forzato e strumentale sul sano sviluppo psicologico di un bambino, posto al centro di un conflitto nel quale egli non vorrebbe assolutamente trovarsi, e nel quale spesso viene invece costretto dagli adulti a prendere posizione a favore e contro qualcuno. Laddove il senso di paternità e maternità responsabile imporrebbero non solo la capacità di garantire al minore affetto, cura, attenzione, educazione e istruzione, ma anche e soprattutto la capacità di preservargli la continuità delle relazioni parentali attraverso il mantenimento della trama familiare, al di là di egoistiche considerazioni di rivalsa sull’altro genitore, nel rispetto del diritto alla vita familiare tutelato dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il quale esige che, anche in situazioni altamente conflittuali, le parti debbano deporre le armi di belligeranza e attenzionare gli interessi primari e supremi dei loro figli, accompagnandoli responsabilmente nel loro percorso di sana ed armoniosa crescita psicofisica, al fine di un idoneo sviluppo della personalità in itinere, proprio in quanto soggetti “a rischio evolutivo”.

Si prospetta naturalmente l’esigenza che tali “qualificate” condotte non siano accertate solamente nell’ambito di una consulenza tecnica psicologica (che pure il giudice di merito potrà continuare ad ammettere, al fine di valutare le capacità dei genitore nell’esercizio della loro potestà, il grado di maturità della prole, le dinamiche familiari e parentali, potendo anche suggerire specifici provvedimenti di sostegno o cura), ma siano provate attraverso l’utilizzo dei mezzi di prova tipici ( interrogatorio della parti, testimonianze, documenti, precedenti decisioni) e specifici della materia (ascolto del minore, relazioni dei servizi sociali e psicologici territoriali, o delle aziende sanitarie), al fine di evitare l’ingresso nella decisione di elementi spuri, quasi sempre collegati a convinzioni pregiudiziali e/o aprioristiche.

Solo in tal modo sarà possibile una decisione equilibrata in punto di affidamento, collocamento e visite della prole rispetto ai genitori, e potrà realizzarsi in concreto quel “supremo” interesse del minore che troppo spesso viene declamato e sbandierato, per essere in realtà sottomesso ad interessi di altre parti del procedimento.

Avv. Antonella Virgilio

 

Print Friendly, PDF & Email