Più di luna mi ubriaco che di vino

Racconti dietro la mascherina

Con l’arrivo del Coronavirus la palazzina si svuotò. Trasformata da anni in bed&breakfast per turisti, erano rimasti solo in due a resistere: Duilio e Lia. Terzo e quarto piano, penultimo e ultimo. I due, però, si tenevano ben a distanza: molto più che sociale. Eterno adolescente, lui s’era fatto affittare dalla madre quell’appartamento per gli studi che non finivano mai. Non usciva quasi mai ed era ossessionato dai rumori. Saliva la rampa di scale, suonava alla porta di Lia, chiedendole cosa fosse quella musica troppo alta che sentiva, o la lavatrice mandata a un’ora sempre inaccettabile per lui. Le bussava spesso con uno scopettone dal soffitto e le inviava mail in piena notte: “Cerca di immedesimarti nella mia necessità di silenzio: non è solo un bisogno, ma un vero sentimento. Ti è così arduo capirlo?”. Ma si può scrivere una mail così di notte a una vicina? E mandarla per conoscenza anche all’amministratore condominiale?! Incontrandola per le strette scale del vecchio edifico sembrava rimanere paralizzato nel salutarla: gli usciva solo un impercettibile fruscio labiale.

Ogni tanto lei vedeva una ragazza salire e infilarsi furtivamente dietro la porta che lui aveva lasciata socchiusa. Dopo un po’ si sentivano degli strepiti da litigio e l’uscio che batteva rumorosamente, rintronando lungo tutto il vano scale. Una volta le sbatté addosso, schizzando fuori nuda, con abiti e scarpe in mano, urlandogli che era il più grande pezzo di merda mai defecato sul pianeta. Lia l’aveva aiutata a rivestirsi, mentre singhiozzava con i vestiti rovesciati lungo i gradini delle scale. “T’ha fatto qualcosa…?” aveva azzardato. “Lui non fa male con le mani, anzi…”. “Come?”. “Duilio t’innamora perché è lui che vuole disperatamente innamorarsi, ma non ci riesce, ha il lucchetto chiuso e s’è persa la chiave: è carcerato di sé stesso”. Scagliò con rabbia le scarpe contro la porta chiusa. “Neanche alla peggiore nemica augurerei di scoparselo!”. Lia lo chiamava l’hikikomori, dopo aver visto un film su questi ragazzi giapponesi che passano anni senza mai uscire di casa, mantenuti dai genitori. Il racconto della ragazza nuda sulle scale gli aveva fatto capire quanto lo fosse davvero un hikikomori. Con il lockdown, poi, non si era proprio più visto e sentito. Forse era tornato dalla madre.

Lia si domandò se fosse rimasta del tutto sola dietro la facciata scolorita di quel piccolo stabile. Non ce la faceva più a vivere la condizione di non vedere e sentire nessuno, se non in video chat, sempre più artificiose, dopo tutte le ore di alienante lavoro in remoto, che a volte svolgeva pure di notte. In realtà, lei rimaneva a guardare intontita la luna: galleggiante, piena, o crescente, calante che fosse. Lia, infatti, si ubriacava più di luna che di vino. Leopardi la abitava dentro, fin nel midollo, fin dall’infanzia, ossia dalla morte del padre a sei anni. Ma la luna non le bastava, anzi la devastava. Le cadeva nel pozzo delle vene, le denudava l’abisso stellare dei desideri. La storditezza del mondo, la condominiale sperdutezza. Da tempo, poi, le riverberava dentro l’alone di quel misterioso silenzio come sentimento. Una sera le telefonò proprio la madre di Duilio. Il tono era gentile, ma arrochito da una vena di angoscia. Suo figlio non le rispondeva al telefono. La pregò di andare a suonare alla sua porta. L’incombenza era spinosa, ma lei si sentì come schiacciata a farlo: inderogabilmente.

Cercò di conferire un’onda plausibile ai capelli orfani di parrucchiera, e scese da lui. Premette appena il campanello. Niente. Ripeté, con un tocco un po’ più a lungo. Ancora niente. Si schiarì la voce, suonò ancora: “Sono Lia, tua madre dice che non le rispondi… Tutto bene?…”. Cercò di auscultare se dei passi si avvicinassero alla porta o si intravedesse qualcosa dietro lo spioncino. Capace di non aprire, perché vedeva la faccia e le mani di lei nude di mascherina e guanti! Tornò in casa, indossò le protezioni, prendendo anche dei soldi per le sigarette e la spazzatura da gettare. Provò a suonare ancora un paio di volte, abbassando la mascherina sul volto, per farsi vedere bene. La porta blindata color verde bottiglia davanti a lei rimase però totalmente muta. Anche la via sotto era deserta. Sopra i tetti una silente lametta di luna. Lia guardò in alto verso le finestre di Duilio. Dalle tapparelle abbassate non trapelava una riga di luce. E se stesse male davvero… fosse morto? Si liberò dell’immondizia: doveva avvertire l’amministratore, prima di spaventare la madre?

Vide avanzare la lampadina incerta di una bicicletta. Era un migrante rider, con la sacca termica sulle spalle. Si fermò proprio davanti al suo portone. Ecco allora! L’hikikomori, proprio come in quel film,  si fa portare la pizza a casa!. “Per Duilio, vero? Dia a me?” sparò sicura Lia. Pagò il rider e suonò al citofono. Rispose flebile lui: “Sì?”. “Che piano – farfugliò da migrante lei – pizza davanti a faccia?”. La serratura del portone scattò: “Terzo”. E come nel film sarebbe stata una ragazza a portargliela, ma con una variante. Altro che arduo capirlo!

Salendo si sfilò la maglietta, abbandonandola lungo i gradini. Qualche altro scalino, e aprì i gancetti della gonna, calciandola indietro appena a terra. Prima di arrivare davanti alla porta di Duilio si tolse anche le scarpe, e appena aperto gliele scagliò violentemente addosso. “Stronzo, siamo soli qui dentro, con un terrazzo condominiale e un sentimento del silenzio tutto per noi”, gli sibilò affannata, indicando verso l’alto. “E vai a raccattare le mie cose per le scale!”. Lui restò inebetito, poi balbettò: “Sì… prendo anche da bere”. “Attento, però, ché io mi ubriaco più di luna che di vino”, sussurrò lei. “Ma io porto champagne”, rispose bisbigliando lui.

di Riccardo Tavani