Dalla Tunisia al Sudan, in Africa ripartono i movimenti di protesta

Discutere di social media nel dibattito pubblico equivale di solito a parlare di rischi o di diffusione di notizie false. In Africa, ma non solo in Africa, i social network e i nuovi mezzi di comunicazione rappresentano, invece, anche qualcos’altro. Sono la voce e l’orecchio di chi mai prima aveva avuto il diritto di esprimere la propria individualità. Rappresentano il motore che dà propulsione a movimenti di protesta contro regimi prima intoccabili e ingiustizie incancrenite. I social fanno da scintilla per movimenti che spesso vengono dalle periferie. Nascono spontanei e fluidi in diversi paesi africani e a volte sono connessi tra loro. Alla guida ci sono i giovani, che rappresentano una fetta sempre più grande della popolazione dell’Africa.

Questo tipo di meccanismo è esattamente quello che ha dato inizio alle manifestazioni delle ultime settimane in Sudan. Le immagini e le parole propagate dai social media hanno alimentato proteste contro il governo sfociate spesso in scontri. Alla testa di questi gruppi privi di una struttura sistematica ci sono i giovani. Combattono contro disoccupazione e per l’emancipazione in un paese dove le unioni studentesche sono controllate e infiltrate dal potere. Le cause superficiali del malcontento si ritrovano nella mancanza di combustibile e nell’aumento dei prezzi dei generi alimentari. Le ragioni profonde parlano di un partito, il National Congress Party (NCP), e di un presidente, Omar el-Bashir, al potere dal 1989 e di una situazione economica sempre più instabile. Tant’è che il Presidente teme ora di perdere il controllo del proprio esercito. La crisi è peggiorata nonostante l’amministrazione Trump al suo primo anno abbia revocato parzialmente le sanzioni che da decenni colpivano il paese. Da quando, nel 2011, il Sud Sudan ha ottenuto la secessione, il paese ha perso il 75% delle entrate da petrolio. La risposta è stata una forte austerità sostenuta dal Fondo Monetario Internazionale che si è tradotta in abolizione di sussidi, privatizzazioni e liberalizzazioni. Il risultato è stato un forte aumento del debito e una corruzione dilagante che hanno reso la situazione sociale ancora più precaria.

Negli ultimi giorni le proteste sono ripartite anche in Tunisia. Unico caso di successo delle rivoluzioni che in Occidente prendono il nome di Primavere arabe. Quelle rivolte condussero il paese ad una nuova e avanzata costituzione e a più democrazia, ma la trasformazione economica non è ancora arrivata. Come allora, le proteste sono partite da un gesto estremo diffuso su internet. Otto anni fa Mohamed Bouazizi, venditore ambulante di 27 anni, si diede fuoco diventando un simbolo. Oggi è un giornalista trentaduenne, Abderrazak Zorgui, a ripetere lo stesso gesto che lo ha condotto alla morte e da cui sono iniziate rivolte anche se di misura molto minore rispetto a quelli di otto anni fa.
All’origine di questi fenomeni c’è il gruppo Y’en Marre nato nel 2011 che dal Senegal ha ispirato l’Africa francofona. In Burkina Faso è connesso con il movimento Balai Citoyen. Sia qui che in Senegal questi gruppi di attivisti hanno portato alla deposizione dei rispettivi dittatori. In Congo movimenti simili hanno forzato Kabila a indire elezioni presidenziali che si sono tenute a fine Dicembre, sebbene sul risultato di queste aleggino molti dubbi. In Togo le opposizioni hanno deciso di boicottare le elezioni farsa e hanno organizzato manifestazioni represse nel sangue dal governo di Faure Gnassingbé.

Sono spesso guidati da musicisti reggae, rapper, artisti ma anche da un’emergente classe di professionisti fatta di avvocati, economisti, studenti. Combattono disuguaglianze e repressione e per farlo non aspettano aiuti dall’esterno. Vogliono trovare la loro personale strada all’emancipazione senza dover più essere costretti ad emigrare.

di Pierfrancesco Zinilli

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