Il vento del rinnovamento soffia nel Kerala, in India, e ha il nome di Bibi, Kanaka e Bindu

Sebbene il “governo del cambiamento” sia in Italia è in India che soffia il vero vento del rinnovamento, o almeno così pare: in Kerala, nel sud del Paese numerose scioperi e manifestazioni sono stati indetti dall’organizzazione induista Sabarimala Karma Samiti, con il sostegno del partito nazionalista indiano Bharatiya Janata Party, lo stesso del primo ministro.

A volere far un passo verso la modernizzazione però non è il partito nazionalista ma chi ha dato a quest’ultimo un motivo per scendere in piazza, vale a dire le molte donne e uomini che protestano per vedere aperto a tutti l’ingresso nel tempio di Sabarimala. Trattasi di uno dei luoghi sacri più importanti dell’induismo, dedicato al dio Ayappa e aperto solo in alcuni periodi dell’anno: l’ultima apertura doveva andare dal 30 dicembre al 20 gennaio 2019. “Doveva” perché all’alba del 2 gennaio due donne, Bindu e Kanaka, scortate da venti agenti in borghese, si sono introdotte nel tempio, contravvenendo alla legge che vieta l’ingresso alle donne in età fertile, quindi dai 10 ai 50 anni, veto già dichiarato incostituzionale dalla Corte Suprema Indiana nel settembre scorso. Questo gesto di rivolta era stato preceduto da un altro che ha visto ergersi una catena umana di 3,5 milioni di donne che, unite, chiedono rispetto.

Questo ha scatenato le proteste di molti uomini, ma anche tante donne devote, concordi con le regole della tradizione. La questione infatti non è di genere, o almeno non del tutto: Bindu e Kanaka protestano prima di tutto per vedere rispettato il diritto alla preghiera e al culto di tutti.

Tuttavia questa protesta ha anche un retrogusto politico: il Kerala infatti,Stato del sud e palco di queste proteste, è il solo governato dal Partito Comunista. E a maggio in India si terranno le prossime elezioni nazionali. Si sono opposti a questa rivoluzione gli ultranazionalisti e i loro acerrimi nemici, i centristi del Congress, trovandosi così concordi almeno su qualcosa.

Dall’India al Pakistan, il passo della rivoluzione è breve come dimostra il caso di Asia Bibi, contadina pakistana condannata a morte nel 2010 perché di religione cristiana, in un paese a maggioranza musulmana. Ben 500 imam si sono dichiarati contrari al verdetto che pende sulla Bibi perché “uccidere in nome della religione è contrario ai precetti islamici”. Gli imam hanno firmato la “Dichiarazione di Islamabad” contro il terrorismo islamico e le violenze compiute in nome della religione. E’ il primo passo per riconoscere il Pakistan come un paese multietnico: “E’ compito del governo proteggere i non musulmani”. Tutti i cittadini “hanno il diritto, riconosciuto dalla Costituzione, di vivere nel Paese, di organizzarsi in autonomia, eliminando forme di odio”. Non rimane quindi che sperare che non siano come tanti altri buoni propositi per cui dalla rivoluzione al dimenticatoio il passo è sempre troppo breve.

di Irene Tinero

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